Home Page

 

Chi sono?

Come definire una persona che si dedica alla scrittura per esprimere se stesso ,gli altri e gli accadimenti che lo hanno plasmato in una sorta di “autoanalisi”

Autodidatta scrive nel linguaggio parlato con le sue forme dialettali e gergali

.Che scrive,insomma come parla,ignorando la costruzione stilistica

Uno che si ritiene un “primitivo”,qualcuno direbbe”naive”

Scrive prevalentemente in lingua napoletana
Vuole solo affermare a se stesso, la propria esistenza come “persona”

Nato a Napoli nel 1946 il 13 maggio
Ha cominciato a lavorare come benzinaio a 13 anni,nel 1968 si è trasferito a Milano dove ha vissuto fino al 1971,
Attualmente vive a Bologna
Ama scrivere ,dipingere e occuparsi di politica
Non ha mai voluto fare delle sue passioni un “mestiere

Gli piace soprattutto la “ provocazione” come mezzo di conoscenza

I suoi interlocutori… finiscono per diventargli amici.”

Così mi ha descritto qualcuno leggendo le mie cose.

 

 

il cammino

GENESI DI UNA DITTATURA

Di

Battimelli Carlo

 

Chi sono?

Come definire una persona che si dedica alla scrittura per esprimere se stesso ,gli altri e gli accadimenti che lo hanno plasmato in una sorta di “autoanalisi”

Autodidatta scrive nel linguaggio parlato con le sue forme dialettali e gergali

.Che scrive,insomma come parla,ignorando la costruzione stilistica

Uno che si ritiene un “primitivo”,qualcuno direbbe”naive”

Scrive prevalentemente in lingua napoletana
Vuole solo affermare a se stesso, la propria esistenza come “persona”

Nato a Napoli nel 1946 il 13 maggio
Ha cominciato a lavorare come benzinaio a 13 anni,nel 1968 si è trasferito a Milano dove ha vissuto fino al 1971,
Attualmente vive a Bologna
Ama scrivere ,dipingere e occuparsi di politica
Non ha mai voluto fare delle sue passioni un “mestiere

Gli piace soprattutto la “ provocazione” come mezzo di conoscenza

I suoi interlocutori… finiscono per diventargli amici.”

Così mi ha descritto qualcuno leggendo le mie cose.

 

 

c.battimelli@alice.it

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Premessa:

 

 

 

Chest’è a storia e tant’e nuie

nat’cu e pezze n’culo,

che doppo à resistenza hannu creduto

e cagnà e cose e stù Paese

 

Che comme diceva Antonio*

ò popolo ch’è stato sempre schiavo

primma o poi se leva stì catene

 

Je che nun tengo chiese int’ò giardino

penzo che st’ommo è stato nù grand’ommo

si pè libberà à gent’e stà nazione

è muorto tiseco m’priggione

 

Cu stà certezza song’iuto nanze*

A mia ,cu tutto che è cose pareno* ò cuntrario,

nunn’è nà speranza,è nà convinzione

:a’gente che ha fatto e stà democrazia

cosa mia”

Che s’è vennuto à resistenza

Pè degnere a credenza*

Primma o poi ha storia le dà ò cunto*

 

 

*Gramsci

* andato avanti

* sembrano

*per riempirsi la dispensa -per arricchire

*riscuote


 

 

 

Strage di Bologna 2 agosto 1980

 

Licio Gelli

 

Lo stemma di Gladio

 

Capitolo primo

 


Quello che si trovarono davanti era per loro, che avevano vissuto fin dalla nascita in un convento,
qualcosa che non si aspettavano

Conoscevano solo la descrizione che ne facevano i frati , le suore,ma soprattutto i libri ,di quello che c’era fuori da quelle mura e cancelli troppo alti per loro.
L’ abbecedario…poi!
Bambini con le divise mai rattoppate.
Tutti ritti, allineati che cantavano canzoni di patria e di eroi.
Molti dai riccioli biondi,come i capelli del bambino Gesù vicino alla Madonna e a San Giuseppe
Si mormorava nel convento che tutti quei bambini nei libri erano figli di questi santi,gli orfani invece figli del peccato o della guerra che, dicevano i frati, erano opera del demonio.
Ecco perché loro erano tanto diversi

Per la verità c’erano due fratelli nell’orfanotrofio dai capelli rossi ,e un altro biondastro ,ma aveva i capelli lisci
I disegni e le foto sui libri mostravano delle signore con vestiti sgargianti e i signori con casacche nere alla guida di belle macchine,a volte su cavalli bianchi ; erano certamente principi e principesse ; come quelli delle fiabe
Quello che colpiva di più la loro fantasia erano le fotografie delle case
Il mobilio, i letti , le tavole apparecchiate con vasi di fiori al centro e piatti ricolmi di cose che dovevano, forse, essere buone ;loro non potevano saperlo,

Le sedie non come gli sgabelli di legno pesanti che dovevano trascinarsi sempre dietro:al refettorio,in classe,in chiesa ,in tutti i posti dove c’era necessità di sedersi.
Per la verità anche i frati e le monache facevano lo stesso,tranne il priore;ma lui era il capo dei frati aveva una sedia con spalliera in ogni posto

,Nino teneva per mano i fratelli, solo di cognome, si chiamavano Esposito tutti e tre: Giovanni e Ciro più giovani di lui .

Ciro era il più piccolo.
Scendevano per la” salita del presepe” una viuzza che dalla Sanità porta a Capodimonte

Leggevano i manifesti

Uno che proclamava lo stato d’assedio in città, con l’ordine di “passare per le armi” ogni cittadino che si fosse reso responsabile di azioni ostili al governo con rappresaglie di cento civili per ogni tedesco ucciso.

Ebbero paura

Alla reggia di Capodimonte i frati raccontavano che ci veniva il re,la regina e i principi,quando passavano le vacanze a Napoli

Loro non li avevano mai visti ;tanto che pensavano fosse un’altra favola raccontata dai monaci.

Si domandarono cosa avessero combinato i napoletani contro il re per meritarsi quella punizione :cento per un tedesco ucciso

Ma perché questa minaccia non erano amici con i tedeschi come asseriva fra Marco ?


Il “bosco di Capodimonte” è un immenso giardino, allo interno del quale c’è il palazzo reale

E’ grandissimo

Tanto che i napoletani lo chiamano “bosco di Capodimonte”

. Quando i monaci li portava a visitare quello che loro chiamavano meraviglia,ai bambini non è che facesse molto piacere ; anzi …
.Girare a bocca aperta per quei corridoi,salire quelle scale di marmo bianco,vedere quei quadri con quelle facce che sognavano negli incubi la notte,ma soprattutto vedere quei letti”a baldacchino”diceva
no i frati che confrontavano mentalmente con i loro:di legno e a castello dove quello che dormiva di sotto spesso veniva svegliato di notte dal gocciolio della piscia del compagno di sopra,nel caso di Nino…Ciro.
Quelle immense stanze li mettevano a disagio.
Rientravano sfiniti : dalla fatica,dalle spiegazioni e dalle domande che si ponevano


La stessa fatica che Nino sentiva in quel momento


Al di qua e al di la della strada cumuli di macerie,uomini e donne vestiti non come nei libri;indossavano stracci.!
Forse più stracci delle loro divise,cucite e ricucite chi sa quante volte da suor Rosaria,.
Qualcuno con pantaloni e casacche verdastri.
Con badili e qualcuno servendosi delle sole mani cercavano di liberare la strada da quelle pietre buttandole con violenza lontano su carriole,carretti e camion infangati.
Ogni tanto qualcuno si fermava e con un braccio cercava di liberarsi dalla polvere nera e dal sudore che gli grondava dalla fronte impasticciandosi il viso inevitabilmente
.Un po’ come faceva Ciro alla recita di carnevale che per liberarsi dalla maschera di Pulcinella che gli disegnavano sul viso con il carbone,finiva sempre con l’annerirselo del tutto mettendo in risalto rigagnoli di lacrime a testimoniare qualcosa che i grandi gli avevamo imposto ma che lui non condivideva.


“cos’è stato...”domandò Nino ad una ragazza ,facendo un largo gesto con la mano
“à….guerra !! centinaia e bumbardament…”
La guerra!?
Ne aveva sentito parlare i monaci quando li riunivano in un grande salone nel seminterrato.
Spesso,anzi quasi sempre di notte,e li facevano sedere o sdraiare in un angolo.
Molti preferivano continuare a riprendere i sogni interrotti.
Nino restava sveglio a guardare attraverso il lucernario,una fessura rettangolare posta su di una parete troppo grande per quella finestra dalla quale s’intravedevano bagliori che sembravano fulmini e boati simili a tuoni
Ombre rosse che s’innalzavano al cielo per poi magicamente scomparire

lo incantavano,era abbagliato dal susseguirsi di luci e colori.
Come i fuochi d’artificio che i monaci qualche anno prima li fecero vedere da sopra il terrazzo del refettorio,in occasione di una festa importante
I ragazzi che restavano svegli,quasi tutti, non avevano paura,anzi trovavano quello spettacolo fantastico,meglio di quelle immagini in bianco e nero che nelle feste comandate,con la presenza del priore e anche delle monache,proiettavano sulla stessa parete.
Commentavano la magnificenza di quei colori e di quei bagliori e qualcuno preferiva non tapparsi le orecchie ,come Nino,anche se sussultava ad ogni boato.
Pensavano tutti che al di la del convento si festeggiassero avvenimenti e feste come dicevano i frati “profane”che era meglio non vedere.


Continuavano a scendere, facendosi prendere divertiti dalla velocità inevitabile che prendeva il loro correre per la ripidità della strada
Si fermarono davanti ad una chiesa
Dentro una piccola folla imprecava,si dimenava,qualche donna si strappava i capelli e mandava ingiurie al cielo strappandosi le vesti.
Qualche altra piangeva stringendo tra le mani il Rosario.
Qualcuno restava in silenzio continuando a guardare una fotografia che mostrava a San Gennaro.

Il parroco lo teneva un tabernacolo raffigurante il santo più in alto che poteva passando attraverso quella folla che sembrava indemoniata tanto urlava e si dimenava
Poi c’era qualcuno che tenendo in mano il breviario muoveva le labbra senza pronunciare parola.
Ciro rideva con le lacrime nel vedere quella scena ,come faceva quando in convento al vespro i frati li riunivano nel refettorio a dire il rosario.
Loro e i frati muovevano solo le labbra ripetendo con un mormorio indecifrabile quello che il priore con una litania monotona ripeteva per un tempo indefinito.
Lui non riusciva a capire perché nessuno gridasse le preghiere,oppure tutti facevano come lui che con il pensiero era da tutta altra parte ?

Non diceva niente a nessuno anche perché dopo il rosario, si mangiavano i confetti
Il parroco innalzava e dondolava quella testa del santo ripetendo una litania incomprensibile .
Un santo che ,dicevano i frati, era il protettore della città .
Nino guardando le macerie che lo circondavano e com’ era vestita quella gente,si spiegò le urla e le invettive contro il santo
Un po’ come faceva lui,quasi tutte le mattine ,quando svegliandosi in quel convento se la prendeva con Gesù che aveva pregato la sera prima di fare un miracolo e farlo volare via da quel posto
Perché non aveva accolto le sue preghiere?

era proprio vero,lui era figlio del peccato
Forse anche tutta quella gente era figlia del peccato.

Mai Nino ,avrebbe pensato di trovare il coraggio di fuggire dal convento,che per tutti gli altri era il posto più sicuro e bello al mondo
Molto probabilmente perché conoscevano solo quello e anche per il fatto che tutto quello che gli veniva detto o mostrato nei documentari e nei libri,e nei film in bianco e nero era un qualcosa di estraneo,di irreale,a volte di pauroso.
Spesso la domenica,dopo il riposo,giù nel seminterrato si proiettava un film
Sulla parete dove stava il lucernaio,l’unica che fosse libera da libri e scaffalature,ma purtroppo per la poca distanza dal proiettore lo schermo era poco più grande di quel buco e i bambini dovevano allungare il collo ed aguzzare la vista per poter mettere a fuoco le immagini
S’iniziava sempre con un documentario che mostrava un signore che fiero descriveva episodi di eroismo e scene di uomini vestiti di nero che marciavano cantando litanie,un po’ come quelle che recitava il priore
Chi sa, pensava Nino se anche tra quella immensa folla ci fossero quelli che come loro muovevano solo le labbra ma con la testa pensavano a tutt’altro?
A volte si parlava di uomini malvagi che avevano tradito Gesù e che mangiavano una volta all’anno per tradizione bambini , questi mostri dovevano essere eliminati, giustamente
Altre volte lo stesso signore dietro una grande scrivania parlava di popoli selvaggi che avevamo ospitato nel nostro impero che bisognava rendere civili come noi,ma che purtroppo uomini cattivi volevano impedircelo,bisognava combatterli e punirli.
I film , gira e rigira erano quasi sempre gli stessi ,parlavano di Gesù,di eroi romani,e poi le comiche di Ridolini,poi c’erano storie di signore nobili che per le loro opere di bene erano diventate sante
Come quelle che a Natale e alla epifania venivano nel convento a farli visita portando dolcetti,abiti dimessi dai figli,o raccolti in giro dalle loro conoscenti ,ma anche giocattoli ,a volte gia rotti.
Per Nino e i suoi compagni che non ne conoscevano altri,quello era un giorno di festa e ogni volta baciavano la mano della santa donna befana facendo l’inchino come aveva insegnato loro il priore.


Ad un certo punto della strada le macerie finirono,al loro posto c’erano delle montagne di roccia nera,e tutte caverne scavate,come quelle che avevano visto nei libri che parlavano di uomini primitivi
All’imbocco delle caverne coperte marroni ,come quelle del convento,facevano da porte

S’intravedevano: letti e mobili, come nelle case,ma non erano case,come avevano visto nei film degli uomini civili
Fuori su sedie poggiate al muro erano sedute delle signore vestite a festa che parlavano con soldati strani ,non erano quelli vestiti di nero,ma altri.
Nino che di natura era curioso si avvicinò ad una ragazza che se ne stava da sola mangiando qualcosa,o dicendo il rosario ,visto il movimento della bocca
“chi sono quei soldati?”
“come chi sono…ma da dove vieni!?….non li vedi sono gli alleati quelli che sono venuti a liberarci...a civilizzarci…”
“ah quelli?!..... quelli…..ho visto al cinema il loro capo…

Andiamo!! Andiamo!!” disse ai fratelli “vi ricordate cosa diceva quel signore dal balcone…..ci sono i cattivi che sono nemici…che non vogliono essere civili ,che credono a un altro Dio… non a Gesù...che a Pasqua si mangiano i bambini cristiani….e dai…muoviti!”disse a Ciro che si era incantato a guardare quella ragazza .
Non ne aveva mai vista una così bella,sembrava una madonna .
Non come quelle signore tutte vestite di nero,che vedevano la mattina a messa .
Pensò in quel momento che la madre doveva essere così : giovane e bella...non come quelle altre;infatti quelle non era mai riuscito ad associarle al pensiero di madre .
Non era alta,,bruna ,con dei capelli tagliati alla maschietta e degli occhi nerissimi
Poco più che una bambina
Con lo sguardo lontano,e quel vestito a fiori,bello ma forse troppo grande per lei.
Un po’ come i calzoncini che portavano in dono le signore a Natale…sempre troppo lunghi e inadatti per il convento

Come quel vestito sgargiante che il ragazzo associò a feste
Lei continuava a masticare,un po’ come facevano loro all’orfanotrofio la domenica quando a pranzo avevano a volte la carne,continuavano a tenerla in bocca masticando lentamente per riempirne la lunga assenza e la fame
Mentre faceva questa considerazione un militare si avvicinò alla ragazza e dopo aver parlato alcuni minuti, gli mostrò il contenuto aprendo un sacchetto di tela bianco ,come quello che i frati li obbligavano a tenere appeso al letto per riporvi la biancheria sporca.
La ragazza chinò la testa in segno di consenso trascinando il militare per mano all’interno della grotta .
Alcuni secondi dopo fece capolino dalla tenda
“guagliù…viene a cà” facendo segno con la mano ai ragazzi di avvicinarsi.
“a vulit à ciucculata…?”mostrando un pacchetto di carta argentata..”tiè.. …” lasciò il pacchetto sulla sedia e richiuse la tenda.


I ragazzi divoravano quel ben di dio,correndo ancora di più per quella discesa,come se non gli fosse stata regalata,ma c
he l’avessero presa di nascosto

Era troppa e troppo buona per essere vera...divoravano per non farla sparire
Come in orfanotrofio quando fra Marco dava a loro tre dei dolcetti o un confetto in più.,rispetto agli altri. Ingurgitavano tutto immediatamente quasi vergognandosi di questo trattamento di favore e anche per evitare che i compagni scoprissero il loro piccolo segreto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo secondo

 


Arrivarono in fondo alla strada
Un bivio
Da una parte una lunga stradina che sembrava più un cunicolo,tanto era stretta, dall’altra davanti a loro un ampia scalinata
“sono stanco…stanco…stanco!!!” cominciò a lamentarsi Giovanni,girando in tondo a quella che una volta era una fontana
Sedettero ai bordi del primo scalino
La gente era strana

Bassi a destra e a sinistra

Le porte e le finestre sembravano quelle disegnate da bambini come loro,forse da bambini ancora più piccoli tanto erano approssimate
Fuori a queste porte: bancarelle,pentoloni fumanti,pollai,e corde tenute distanti dai muri con delle assi di legno, con una infinità di cose appese ad asciugare
La gente si muoveva distratta parlando e muovendosi lentamente ,come se non avesse altro da fare,nessuna meta da raggiungere
Da una grossa pentola fumante ,una signora che stava a malapena seduta su di uno sgabello tanto era grassa,riempiva scodelle di liquido rosso che i passanti le porgevano,dopo aver fatto tintinnare una moneta in un grosso barattolo di latta
I ragazzi si avvicinarono
Guardavano quel pentolone nero e aspettavano,come facevano in convento quando passava frate Giuseppe tra i tavoli a riempire le scodelle
“zingariè….tenite famme…!?....e sorde?

Che ve lo addimanno affare...piglie …..chillo” rivolgendosi a Nino e mostrando un barattolo abbastanza grande e con un grosso mestolo lo riempì di quel liquido rossastro,con dentro dei pezzi di carne verdastra.

.” a..trippa..ve piace..tiè ” diede a Nino una busta con delle fette di pane “americano”
I ragazzi guardarono quelle fette di pane bianco stranamente tutte uguali,non come quelle che erano abituati a mangiare da sempre;scuro,spesso duro,che faceva fatica anche il latte a renderlo morbido
Si misero a cerchio seduti in terra non molto lontano da quel donnone che ricordava frate Marco,non solo per la bontà,ma soprattutto per la mole
Mangiavano con le mani, e quel sapore strano presto divenne buono,come il pane,non importava che non riuscivano a premerlo sui bordi del recipiente, come facevano di solito con il latte per non sprecarne;in quel modo avevano imparato a mangiare tanto pane e alla fine farsi anche una bella bevuta di latte
Quel pane strano diventava subito molle e bisognava raccoglierne i pezzi insieme ai pezzetti di frattaglie;non rimaneva attaccato alla fetta
Ciro guardò la signora che diede un sospiro ,guardò al cielo e poi fece un segno con la mano al ragazzo di avvicinarsi
Prese il mestolo e, questa volta colando quanto più il brodo poteva, riempì il barattolo quasi con tutta “trippa e patate…”
.poi chiamò una ragazza che fece capolino da una porta socchiusa

puortame nata busta e pane..!”
Mentre mangiava Nino guardava quella gente

Una folla per lui ,così strana,così diversa tra loro
C’erano persone che sembravano vestite a festa ,altre con stracci sporchi e rotti,omoni neri in divisa che ogni volta che ne vedeva uno,Ciro dava una gomitata al fratello,certi altri biondissimi come Luca ,loro compagno di camerata
Persone che portavano pacchi,sacchi,o si trascinavano dietro bambini ,altri che si fermavano davanti a bancarelle e compravano qualcosa
Più in la della grassona , un altro basso se possibile ancora più fatiscente,dove per porta e finestre c’erano delle lamiere ondulate

Una corda attaccata al muro con una serie di indumenti posti ad asciugare e una donna bassa che si arrampicava su di uno sgabello continuava ad appendestracci

. Davanti ad una padella fumante un omaccione con in dosso pantaloni strani con macchie di diversi colori:nere,verdi marroni e una maglietta verde , tirava fuori dalla padella pizze che metteva in una specie di catino dove molti si fermavano a guardare …..qualcuno comprava,.
Alcuni bambini ,qualcuno più ragazzo che bambino,si erano messi a semicerchio intorno alla padella fumante
Dovettero aver detto, o fatto qualcosa di male perché l’uomo li cacciò in malo modo

nunn’è tenite e sorde !?....jatevenne faciteme faticà…..wuà..tutt’e juorne a stessa storia …andate a Santa Patrizia là e monache fanno doi vote ò mangià al giorno per i poveri pezziente comm’è a vuie ..”
“guagliù …guagliù !!!”
Nino vide che c’è l’avevano con lui e i fratelli…fece un cenno con la testa interrogativo
“e….voi ....nun venite a Santa Patrizia…?.c’è stà ò mangià…puortete a buatta !…iamme “
Poi il più grandicello si avvicinò a Inno

portala sempre cu te stà buatt,te serve…e cucchiai,e tiene… no?!va buò te li do io…”
Prese dalla tasca dei calzoni,che erano uguali a quello dell’uomo delle pizze,tre cucchiai nuovi ,ancora avvolti nella carta…

questi sono cucchiai importanti…vengono dall’America….iammo..facimmo anpresse…”
Largo San Gaetano ,per arrivarci avevano fatto una infinità di strade e stradine
Tutte presentavano lo stesso caotico spettacolo: militari ,macerie ,bancarelle improvvisate sui marciapiedi,donne vestite a festa e straccioni
Molte persone vestivano come i militari con dei cappelli strani,ma si vedevano che non erano soldati
Sotto la statua di un santo Nino notò un mucchio di persone in cerchio
Al centro di questo assembramento, un lenzuolo che una volta dovette essere bianco
Tre donne sedute in terra
Una prendeva da un sacchetto mozziconi di sigarette ,li apriva e metteva il tabacco sul lenzuolo;ce n’era un bel mucchio al centro
Una grassona al centro prendeva quel tabacco e ne faceva pacchetti e un’altra li dava a signori con un pacchetto di cartine
Anche il più grande dei nuovi compagni di Nino ne prese uno, ma lui non pagò tirò fuori da uno di quei tasconi un pacco che aprì sul lenzuolo,era pieno zeppo di cicche .
La donna gli diede anche dei soldi strani
“e…visto comme se fanno e soldi…me li astipo e po’ quanno me faccio grande mi metto una poteca e vendo e sigarette…..io è tengo e sorde che ti credi.

lo vuoi pure tu uno spinello,te lo faccio ,attenzione che questo ti fa pisciare a letto….,tiè ti do tutto il cuoppo e pure le cartine.”
Nino prese quella specie di cono e cominciò ad imitare gli altri.
Alla prima boccata si sentì bruciare la gola e tossì fragorosamente,tanto che tutti gli altri cominciarono a ridere e a urlarglie in coro

ò puorchè cu a spiga in bocca…piscia sotto..pisciasotto…”

Prima di girare l’angolo che dalla stradina principale,(dove oggi ci sono le botteghe dei presepi e pastori) i ragazzi furono fermati da una guardia o almeno così sembrava dai vestiti che indossava
“dove andate…non la vedete la fila?! “
Nino guardò dietro l’angolo e capì che prima di due tre ore non avrebbero mangiato
“quanti poveri come noi “,pensò
In effetti erano tanti e tutti con pentole,scatoloni di latta che per manici avevano corde,ma anche cinghie di cuoio,quelle dei pantaloni
“Quante donne e quanti bambini !
Non era vero che tutti i bambini fuori dall’orfanotrofio erano riccioluti biondi figli di Giuseppe e Maria ,anzi fino a quel momento non ne aveva visto nessuno…quasi tutti come loro ..vuoi vedere che siamo tutti figli del peccato e della guerra…che siamo tutti figli del demonio..?”pensava Ciro
Quando arrivò il loro turno la suora prima riempì il loro barattolo di un minestrone quasi tutte patate...poi con la mano li fece segno di accomodarsi su una panca all’ interno
Non si spiegarono questo privilegio fino a quando l’uomo della fila, la guardia non li obbligò a seguirli
Li fece salire su di una camionetta
Nino capì dalla strada che percorrevano che li stavano riportando all’orfanotrofio,
“le divise.. mannaggia...le divise!!…perchè non le avevano tolte ? “
Si mise a piangere
In quel momento non sapeva se di rassegnata contentezza o di rassegnata tristezza

Capitolo terzo

Quando mio padre venne a riprendermi dal convento aveva 10 anni

Avevo lasciato Nino con i frati raccontare per l’ennesima volta la sua fuga ,condita volta per volta con avventure nuove ,o per paura aveva tralasciato nel primo racconto

Dopo pochi giorni l’onorevole Giuseppe Romita, il 2 giugno annuncia alla nazione che è nata la repubblica italiana.

Mio padre era tornato a Napoli,dopo quattro anni di campo di concentramento in Germania

Era partito per combattere a fianco dei partigiani spagnoli

Come diceva “ la guerra civile in Spagna aveva rappresentato una delle pagine più importanti della lotta popolare contro il fascismo e per la libertà “

Combattuta fra le due guerre mondiali,anticipando quello che sarebbe accaduto in Italia qualche anno dopo.

La resistenza partigiana in Italia si formò nel settembre del ‘43,soprattutto nelle regioni sotto il dominio tedesco. All’inizio,come era avvenuto nelle altri parti D’Europa,si tratto di un modo spontaneo di persone che manifestavano il loro dissenso attraverso il sabotaggio e gli attentati.

Ben presto in Italia attraverso l’opera di diversi partiti antifascisti usciti dalla clandestinità dopo la caduta di Mussolini,furono create le brigate partigiane: la <<Garibaldi>>era formata soprattutto da comunisti,la <<Giustizia e Libertà>> da esponenti del partito d’azione, la <<Matteotti>>da socialisti,quelle autonome raccoglievano cattolici, repubblicani e monarchici.

La composizione delle brigate era quindi molto disomogenea, ma unico appariva il loro scopo:cacciare l’invasione nazista,abbattere definitivamente il fascismo e dare vita a un nuovo Stato democratico.

Mio padre si arruolò nella brigata Garibaldi,anche se non aveva condiviso la scissione di Livorno del 21 restando socialista.

Quando tornò definitivamente a Napoli,occupò un monolocale situato in via Marina di fronte al porto e fu eletto segretario del PCI a cui aderì dopo la svolta di Salerno Anche lui riteneva ,come Togliatti che bisognava concorrere al primo governo Badoglio

Raccontava spesso che i l viaggio di Togliatti da Mosca a Salerno durò cinque settimane. Ma le ragioni della lunghezza furono semplicemente la guerra e la geografia. Togliatti partì da Mosca il 18 febbraio per Baku, in Azerbaigian, proseguì per Teheran, raggiunse il Cairo, approdò ad Algeri, dove dette una intervista a un giornale comunista, e salpò per Napoli a bordo della nave Ascania.

Giunse in vista del Vesuvio il 27 marzo, nel giorno stesso in cui una enorme massa di fumo e una pioggia di cenere sottile, provocate da una eruzione del vulcano, oscuravano la vista della città. Scrisse più tardi che «il volto della patria, di nuovo raggiunta dopo diciotto anni di esilio, aveva qualcosa di apocalittico». È possibile che durante il viaggio abbia avuto incontri politici, soprattutto ad Algeri, dove era installata la Commissione alleata di controllo. Ma buona parte del suo tempo fu impiegata ad attendere pazientemente la partenza di un mezzo di trasporto, nave o aereo, per la tappa successiva. Sulle ragioni della «svolta di Salerno» (la partecipazione dei comunisti al governo Badoglio) è stato scritto molto ed esistono oggi gli importanti documenti rinvenuti da Elena Aga Rossi e Viktor Zaslavsky («Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca», edito dal Mulino). Sappiamo che Togliatti inviò a Badoglio due messaggi, fra il novembre e il dicembre 1943, per chiedergli di essere autorizzato a rientrare in Italia. Sappiamo che nelle settimane seguenti vi furono alcuni incontri fra il segretario generale del ministero degli Esteri italiano Renato Prunas e il rappresentante sovietico nella Commissione di controllo Andrej Vyshinskij. Sappiamo che questi incontri permisero la ripresa delle relazioni tra l’ Italia e l’ Urss e che la notizia dell’ accordo fu data il 14 marzo, mentre Togliatti era al Cairo. E sappiamo infine che l’ intesa raggiunta da Prunas e Vyshinskij non piacque agli Alleati e irritò in particolare il governo britannico. Il ritorno di Togliatti, l’ accordo italo-sovietico e l’ irritazione della Gran Bretagna sono pezzi di uno stesso puzzle. Come ha ricordato Paolo Spriano («Togliatti segretario dell’ Internazionale», Mondadori 1988), Churchill non si fidava degli antifascisti, voleva che l’ Italia avesse un governo monarchico e intendeva tenere l’ Urss fuori della penisola. Per rompere il loro isolamento, i sovietici si accordarono con Badoglio sulla ripresa delle relazioni e sostennero, con argomenti a cui gli americani erano sensibili, che le forze antifasciste erano indispensabili alla lotta contro la Germania e al futuro democratico del Paese. Sapevano di non poter fare in Italia ciò che avrebbero fatto di lì a poco in Romania, Bulgaria, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia. E puntarono su un obiettivo che avrebbe avuto almeno l’ effetto di allargare la loro influenza sul Paese. Togliatti aveva il compito di spiegare ai comunisti intransigenti, come Velio Spano, e agli altri partiti antifascisti, che era dannoso in quel momento insistere sull’ abdicazione del re e l’ avvento della repubblica. Quei problemi potevano attendere la fine della guerra e, nel frattempo, era meglio stare al governo che starne fuori.*

  • da un articolo di :Romano Sergio

Da giovane aveva fatto il falegname e questa breve esperienza gli permise di trasformare quell’enorme stanzone in un mini appartamento

Capitolo4

Per festeggiare il mio primo anno di libertà mi portò con mia madre ad una festa

Il viaggio ,con altre famiglie ,compagni di partito fu interminabile durò cinque giorni

Avevano preso a nolo un vecchio camion,quello con il telone e sempre mio padre aveva sistemato delle vecchie panchine per ospitare quella folla di uomini,donne e bambini festanti

Era una bella giornata e doveva essere una grande festa di popolo,la prima grande festa popolare in Sicilia dopo la nascita della repubblica

Era il 1° di maggio del 1947 a Portella della Ginestra, nell’entroterra palermitano, tra Piana degli Albanesi e San Giuseppe Iato. Quasi duemila tra contadini e braccianti di una Sicilia povera e disperata si erano dati appuntamento sui prati a ottocento metri di quota per celebrare la festa dei lavoratori, ascoltare un comizio sindacale e, soprattutto, passare una giornata in allegria con pranzo finale all’aria aperta. Proprio per questo motivo c’erano, oltre alle immancabili bandiere rosse e a un nutrito gruppo di esponenti sindacali, anche tante donne, bambini e anziani. Interi nuclei familiari erano giunti a piedi, col carretto o a dorso di mulo già di prima mattina. Avrebbe dovuto tenere il discorso Girolamo Li Causi, originario di Termini Imerese, politico quotato e avversario storico dei boss e dei loro luogotenenti. Impegnato però in un’altra manifestazione, fu sostituito dal calzolaio Giacomo Schirò, segretario della sezione socialista di San Giuseppe Iato.
A Montelepre, la sera prima il bandito Salvatore Giuliano aveva radunato i suoi uomini e impartito gli ordini per l’azione. Divisi in due gruppi dovevano raggiungere la Pizzuta, un Promontorio che domina Portella della Ginestra, e la Cumeta, un’altro rilievo poco distante. S’incamminarono all’alba. Armato di tutto punto, Giuliano con i suoi raggiunse la Pizzuta. Gli altri, al comando di Antonino Terranova, videro in lontananza una pattuglia di carabinieri: per evitare uno scontro che avrebbe mandato all’aria tutta l’operazione, il secondo gruppo di fuoco ritornò quindi sui propri passi.
Sull’improvvisato palco l’oratore aveva appena attaccato il suo discorso quando dalla vicine alture che dominano la piana di Portella partirono le prime raffiche di mitra. Saranno state le nove e mezza, al massimo le dieci. Tra i presenti ci fu chi pensò a un tripudio di castagnole e mortaretti lanciati in segno di festa. Ma dopo l’iniziale sbalordimento il sangue delle vittime fece capire immediatamente la vera natura degli scoppi. Difficile intuire da dove provenissero i colpi. Nessuna possibilità di scampo per la folla, che da compatta si stava disperdendo in preda al panico, alla ricerca di un riparo qualsiasi. Nel giro di poco meno di due minuti la strage era compiuta. A terra restavano undici corpi inanimati. Due erano bambini. Più di sessanta i feriti.
Quattro cacciatori si erano imbattuti in Salvatore Giuliano poco prima della strage. Immobilizzati e bendati dagli uomini del “commando” avevano sentito il crepitare dei colpi e poi erano stati liberati. Saranno poi loro a mettere gli inquirenti sulle tracce del bandito.
Il clima politico di quei primissimi anni del dopoguerra era arroventato più che mai. Ad aprile si erano tenute le elezioni regionali che avevano segnato un consistente successo del Blocco del popolo, la coalizione guidata da Pci e Psi. Agrari e latifondisti temevano la definitiva erosione della propria secolare supremazia. Un’atmosfera di panico che si stava già diffondendo da qualche tempo tra i possidenti isolani. Un anno dopo lo sbarco alleato le associazioni contadine avevano infatti ottenuto il diritto di occupare o di avere in concessione terre incolte o sottoutilizzate dei grandi latifondi. Per la statica società siciliana si trattava di uno sconvolgimento radicale, dal quale non poteva non conseguire anche un riordino degli equilibri politici locali. Equilibri nei quali la mafia da sempre aveva un ruolo di primo piano. Del resto, nonostante il pugno di ferro del prefetto Mori, in vent’anni neanche il fascismo era riuscito a scardinare a fondo il sistema familistico e omertoso che proteggeva l’onorata società. Al più, il regime era riuscito a far tacere le notizie: il fenomeno mafioso pareva debellato solo perché non se ne se ne scriveva sui giornali. Ma con l’arrivo delle truppe americane la ramificata organizzazione era tornata alla ribalta e con essa l’esigenza di ridefinire le gerarchie criminali.
Nel caos postbellico - così come del resto era già accaduto negli anni immediatamente successivi all’Unità - aveva di nuovo preso piede anche un altro fenomeno: il banditismo. Condensato di ribellismo contro il potere costituito e di criminalità comune, espressione di arretratezza sociale e palestra per i futuri picciotti, il banditismo era stato volta a volta abilmente strumentalizzato, o semplicemente tollerato, dalla cupola mafiosa. Che in cambio chiedeva il rispetto della sua antica immagine di onorata società e la sua funzione di arcaico strumento di “ordine” e di “regolazione” sociale.
Giuliano tirò fuori la sua pistola e freddò un appuntato riuscendo a far perdere le proprie tracce. La fama del “Turiddu di Montelepre”, che ammazza uno sbirro, simbolo di uno stato forse assente e certo supremamente disprezzato, prese il via proprio allora. Seguirono altri ammazzamenti, la definitiva costituzione della banda nel gennaio 1944 e il piano per l’evasione dello zio e del cugino dalle carceri di Monreale. Nasce il mito della sua imprendibilità mentre Montelepre diviene il suo feudo, una sorta di giurisdizione autonoma rispetto al resto dell’isola.
Tra il 1945 e il 1946 Giuliano compie un salto di qualità, inserendosi nelle lotte del movimento separatista siciliano. Non si accontenta più di fare il bandito, vuole “mettersi in politica”. Così una relazione della commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso, datata 1972, ne descrive l’apprendistato: “Giunge poi opportuno, ai suoi fini, l’insorgere del Movimento separatista, che spera, attraverso una insurrezione, di ottenere l’autonomia dell’isola. Nel Movimento separatista ritroviamo lo stesso Giuliano al servizio di un’idea e pare che Giuliano abbia dimostrato con i suoi atti e con il suo atteggiamento un profondo convincimento separatista. [...] sembra che al Giuliano furono consegnati i galloni di tenente colonnello comandante dell’Esercito volontario indipendentista siciliano. [...] L’occasione per la partecipazione alle attività separatiste dette, poi, al Giuliano la possibilità di esplicare, naturalmente a modo suo, una qualche attività di ingerenza politica. È risaputo infatti che, sciolto l’Esercito volontario indipendentista e rientrati i gregari di questo a far parte del Movimento indipendentista siciliano, il Giuliano si impegna ad appoggiare, alle elezioni politiche del 1946, il Movimento. Lo stesso atteggiamento egli assume in occasione delle elezioni regionali dl 20 aprile 1947. In questa occasione il Giuliano, e soprattutto la sua famiglia, profusero energie e risorse a favore del Movimento indipendentista siciliano democratico repubblicano (Misdr)”. Continua la relazione: “Da questa sua multiforme posizione ed aiutato altresì dalla situazione locale e storica del tempo, Giuliano riuscì a fare, nella sua carriera criminosa, ben 430 vittime, sempre, purtroppo, protetto nella inaccessibilità del suo rifugio dalla non malcelata protezione della mafia”. Assale le caserme delle forze dell’ordine e le sezioni comuniste, rapisce illustri personaggi politici, uccide mafiosi di rango, aggredisce colonne dell’esercito. Ma senza dimostrare una logica precisa. Attacca la polizia perché la ritiene repubblicana mentre talvolta risparmia i carabinieri, perché evocano in lui la monarchia, di cui si dichiarava confuso fautore.
Ed è in questo caotico agitarsi tra banditismo, legami mafiosi e pretenziosità politica che si inserisce la strage di Portella della Ginestra, strage condotta dagli uomini di Giuliano con l’abituale ferocia e per ragioni che oggi, a più di mezzo secolo di distanza, possono apparire, fuori dal clima politico del dopoguerra e lontani dall’humus della società siciliana dell’epoca, più che misteriose, banalmente incoerenti.
Le indagini, come abbiamo visto sopra, si indirizzarono subito verso il Turiddu di Montelepre, nel doppio ruolo di esecutore e di mandante della strage. Ma la questione si ingarbugliò fin dal principio. Nel rapporto della polizia, stilato poco dopo i fatti e inviato al Ministero dell’interno, si indica con buona probabilità in Giuliano l’autore materiale e non si esclude del tutto che “l’idea di un’azione criminosa contro i partiti della sinistra” fosse stata “ispirata e rafforzata specialmente da qualche elemento isolato in strette inconfessabili relazioni col bandito Giuliano”. Nel suo rapporto, l’Arma dei Carabinieri individuò, invece, come possibili mandanti “elementi reazionari in combutta con mafia locale”. Il ministro Mario Scelba, chiamato il giorno dopo gli avvenimenti a rispondere davanti all’Assemblea costituente dichiarò che allo stato dei fatti, cioè ventiquattrore dopo la sparatoria, non dovesse trattarsi di delitto politico. “Non può essere un delitto politico - spiegò con sillogismo lapalissiano - perché nessuna organizzazione politica potrebbe rivendicare a sé la manifestazione e la sua organizzazione”. Socialisti e comunisti denunciarono con veemenza la tesi opposta, e cioè che i mandanti dovevano essere cercati tra gli agrari e i mafiosi, in combutta con ambienti politici della destra siciliana ed esponenti del separatismo.
In un memoriale fatto pervenire ai giudici della corte d’assise di Viterbo, dove nel 1950 verrà istruito il processo, Giuliano diede invece questa spiegazione: “I caporioni comunisti ad un certo punto diedero ordine ai contadini di far la spia dei banditi, evidentemente perché i banditi consistevano e consistono per loro la forza invisibile dei mafiosi [...]
incominciai a maturare il mio piano di punizione [...] quella festa la credetti opportuna perché credetti che in quella maniera potevano capitarci i principali responsabili cui miravo”. In breve, Giuliano sentendo venir meno il consenso, o perlomeno il silenzio dei contadini, sui quali aveva costruito tutto il suo potere, decide una vendetta. Una vendetta che è anche politica, perché il successo elettorale del Blocco del popolo ha tolto voti al “suo” Movimento indipendentista.
Nei quasi tre anni intercorsi tra la strage e la morte, avvenuta a Castelvetrano il 5 luglio 1950 ad opera del cognato Gaspare Pisciotta in accordo con le forze dell’ordine, il bandito di Montelepre tornò più volte sull’argomento, con ulteriori memoriali o lettere inviate ai giornali. Ribadì di aver voluto dare una “lezione” ai comunisti, rei di volere un capovolgimento dei rapporti sociali in Sicilia. Disse inoltre che le vittime erano state un terribile incidente di percorso, perché ai suoi uomini aveva dato disposizione di sparare sopra la folla a scopo intimidatorio. Scagionò il ministro dell’interno Scelba il cui nome era stato fatto da alcuni imputati come mandante occulto. Ma due mesi prima di essere ucciso sembrò ricredersi e scrisse una lettera all’Unità dicendo che “Scelba vuol farmi uccidere perché io lo tengo nell’incubo per fargli gravare grandi responsabilità che possono distruggere tutta la sua carriera politica e financo la vita”.
Il processo si intorbidò ulteriormente per la chiamata in corresponsabilità di esponenti politici siciliani. Antonino Terranova, detto il “Cacaova” fu uno degli imputati a tirare in ballo la figura dei mandanti. Disse di non ricordare più i loro nomi ma di aver saputo da Giuliano che se nelle elezioni politiche del 1948 la Democrazia Cristiana avesse vinto i banditi avrebbero ottenuto la libertà. Ma Giuliano ormai era passato a miglior vita e non poteva né confermare né smentire. Gaspare Pisciotta parlò di una lettera, una sorta di lasciapassare per Giuliano firmato di pugno da Scelba. Nel fantomatico scritto il ministro dell’interno avrebbe chiesto al bandito nientemeno che di aiutarlo a sconfiggere il comunismo sparando sulla folla inerme a Portella della Ginestra. La storia della lettera tenne banco a lungo - a un certo punto saltò fuori anche l’ipotesi che non fosse stata scritta dal ministro, bensì da un colonnello del corpo americano di occupazione in Sicilia -, e solo anni dopo si chiarì essere un clamoroso falso.
Il problema dei mandanti tornò d’attualità nel 1951 con una girandola di denunce da parte di esponenti comunisti regionali nei confronti di alcuni deputati monarchici e dell’ispettore di pubblica sicurezza Ettore Messana, quest’ultimo reo di aver avuto tra i suoi informatori anche uno dei banditi coinvolti nella sparatoria. E ancora denunce di giornalisti contro deputati, senatori e ministri per aver protetto in varie circostanze la banda di Giuliano.
Una cosa è certa. Pisciotta, su invito del suo avvocato, diede volutamente versioni confuse, contrastanti, intese a coinvolgere più gente possibile per scompaginare meglio le acque. Poco prima di essere ucciso nel carcere dell’Ucciardone a Palermo, il 10 febbraio 1954, con un caffè alla stricnina, Pisciotta aveva accennato a nuove rivelazioni. Nello specifico una serie di incontri tra il deputato democristiano Mattarella ed esponenti della mafia. Ma si apprestava a dire la verità, e perciò fu ucciso, o si trattava dell’ennesimo depistaggio
Tornando ai fatti di Portella della Ginestra, alla sparatoria e alla questione dei mandanti occulti, nel corso dei decenni hanno continuato ad accavallarsi ipotesi, congetture e ricostruzioni. Ognuna con le proprie verità, frutto di letture appassionate, talvolta parziali, talvolta interessate, dei fatti visti sopra. Tra i partecipanti alla manifestazione per il 1° maggio del 1947 c’è chi si ricordò di aver sentito alcuni giorni prima, in paese, mormorare una frase premonitrice: “Partirete cantando, tornerete piangendo”. Altre ricostruzioni hanno ipotizzato che i colpi mortali siano stati esplosi da personaggi mescolati tra la folla e non dalle alture che circondano Portella. Altre ancora hanno parlato di una serie di esplosioni, che però non hanno mai trovato riscontro nei rilievi della polizia. Qualcuno ha messo in campo l’ipotesi che in realtà a sparare fosse stata la mafia per far ricadere la colpa su Giuliano, diventato ormai troppo ambizioso e ingestibile. Ma nei memoriali e nelle lettere scritte dal bandito il complotto mafioso non viene mai menzionato.


Da:rosarossa (rete)

 

 

Capitolo 5

Ero tornato dal mio turno di mattina ,lavoravo all’Alfa-Romeo

Fortunatamente ero riuscito a prendere il treno e staccarmi dalla mia città; dopo la morte dei miei non avevo più legami

Venire su a Milano era stata sempre la mia aspirazione

Quando scesi dal treno ero infreddolito

Era freddo…..si! proprio freddo come mi avevano raccontato,accentuato forse dal fatto che la stazione oltre ad essere enorme,sembrava non dovesse finire mai,stava sotto una specie di galleria che faceva da tiraggio non solo al vento ,ma anche alla nebbia che mi entrava nelle ossa.

Non mi spiegavo tutta quella gente che dormiva avvolta in cartoni o coperte militari.

Ero andato ad abitare in via Foppa, in uno di quei cortili che una volta forse facevano parte delle prime costruzioni fuori porta e che con gli anni il centro aveva risucchiato

Il monolocale era situato al secondo piano e affacciava su un ballatoio dove c’era il cesso e la fontana dell’acqua comune

Ricordo che per le mie origini meridionali dovetti anticipare 3 mensilità (45 mila lire).

Erano gli anni che l’economia del nostro Paese cominciava a crescere rapidamente e anche il miglioramento del tenore di vita,di alcuni, era percepibile

Per le strade il traffico automobilistico cominciò a creare i primi problemi e i negozi cominciarono ad essere belli anche lontano dal centro cittadino

Le mie ore fuori dal lavoro le passavo o alla Upim o alla Rinascente o facendo in lungo e il largo via Torino, i portici di piazza del Duomo,o la galleria,anche se mi sembrava tutto troppo uguale;omologante

Cominciai a maturare l’idea che il consumismo fosse diventata una nuova divisa da mostrare,che fosse una nuova dittatura ;come disse Pasolini…....... il vero fascismo (fosse) quello che i sociologhi hanno troppo bonariamente chiamato «la società dei consumi». Una definizione che sembra innocua,puramente indicativa. Ed invece no.

Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa spensierata società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un vero e proprio fascismo. […] Con una differenza, però. Allora i giovani nel momento stesso in cui si toglievano la divisa e riprendevano la strada verso i loro paesi ed i loro campi,ritornavano gli italiani di cento, di cinquant’anni addietro, come prima del fascismo.

Il fascismo in realtà li aveva resi dei pagliacci, dei servi, e forse in parte anche convinti, ma non li aveva toccati sul serio, nel fondo dell’anima, del loro modo di essere. Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta più, come all’epoca mussoliniana, di una irreggimentazione superficiale, scenografica, ma di una irreggimentazione reale che ha rubato e cambiato loro l’anima. Il che significa, in definitiva, che questa «civiltà dei consumi» è una civiltà dittatoriale. Insomma se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la «società dei consumi» ha bene realizzato il fascismo.

(P.P. Pasolini, Scritti corsari)

In quegli anni si stava anche formando una crescita culturale,che le forze di destra non erano in grado di affrontare ;da questa debolezza l’impressione egemonizzante gramisciana della sinistra

In quel periodo si erano creati degli strati sociali portatori di novità, che non da tutti erano visti favorevolmente , con effetti favorevoli in occasione delle consultazioni elettorali ma dietro un retroterra di volontà di rivincita delle forze reazionarie e dei poteri forti che vedevano sgretolarsi i piloni del “palazzo”

Quelle stesse forze di cui il fascismo era stata solo l’espressione plateale,come disse qualcuno in seguito “’immagine di parata” e che oggi si ritrovano a gestire economia e politica Un periodo che si continuava a pensare di transizione ,che ben presto si sperava sarebbe cambiato

Ma non era così, non si trattava di transizione ,ma animo permanente della società italiana ” la distinzione tra fascismo aggettivo e fascismo sostantivo risale niente meno che al giornale “Il Politecnico”, cioè all’immediato dopoguerra...” Così comincia un intervento di Franco Fortini sul fascismo (“L’Europeo, 26-12-1974): intervento che, come si dice, io sottoscrivo tutto, e pienamente. Non posso però sottoscrivere il tendenzioso esordio. Infatti la distinzione tra “fascismi” fatta sul “Politecnico” non è né pertinente né attuale. Essa poteva valere ancora fino a circa una decina di anni fa: quando il regime democristiano era ancora la pura e semplice continuazione del regime fascista. Ma una decina di anni fa, è successo “qualcosa”. “Qualcosa” che non c’era e non era prevedibile non solo ai tempi del “Politecnico”, ma nemmeno un anno prima che accadesse (o addirittura, come vedremo, mentre accadeva).
Il confronto reale tra “fascismi” non può essere dunque “cronologicamente”, tra il fascismo fascista e il fascismo democristiano: ma tra il fascismo fascista e il fascismo radicalmente, totalmente, imprevedibilmente nuovo che è nato da quel “qualcosa” che è successo una decina di anni fa.
Poiché sono uno scrittore, e scrivo in polemica, o almeno discuto, con altri scrittori, mi si lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di quel fenomeno che è successo in Italia una decina di anni fa. Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e probabilmente a capirlo anche meglio).
Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta).
Quel “qualcosa” che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole”.
Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi. Osserviamole una alla volta.

Prima della scomparsa delle lucciole
La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta. Taccio su ciò, che a questo proposito, si diceva anche allora, magari appunto nel “Politecnico”: la mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la Costituzione. E mi soffermo su ciò che ha poi contato in una coscienza storica retrospettiva. La democrazia che gli antifascisti democristiani opponevano alla dittatura fascista, era spudoratamente formale.
Si fondava su una maggioranza assoluta ottenuta attraverso i voti di enormi strati di ceti medi e di enormi masse contadine, gestiti dal Vaticano. Tale gestione del Vaticano era possibile solo se fondata su un regime totalmente repressivo. In tale universo i “valori” che contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la Patria, la famiglia, l’obbedienza, la disciplina, l’ordine, il risparmio, la moralità. Tali “valori” (come del resto durante il fascismo) erano “anche reali”: appartenevano cioè alle culture particolari e concrete che costituivano l’Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale. Ma nel momento in cui venivano assunti a “valori” nazionali non potevano che perdere ogni realtà, e divenire atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere fascista e democristiano. Provincialità, rozzezza e ignoranza sia delle “élites” che, a livello diverso, delle masse, erano uguali sia durante il fascismo sia durante la prima fase del regime democristiano.

Paradigmi di questa ignoranza erano il pragmatismo e il formalismo vaticani.
Tutto ciò che risulta chiaro e inequivocabilmente oggi, perché allora si nutrivano, da parte degli intellettuali e degli oppositori, insensate speranze. Si sperava che tutto ciò non fosse completamente vero, e che la democrazia formale contasse in fondo qualcosa. Ora, prima di passare alla seconda fase, dovrò dedicare qualche riga al momento di transizione. In questo periodo la distinzione tra fascismo e fascismo operata sul “Politecnico” poteva anche funzionare. Infatti sia il grande paese che si stava formando dentro il paese - cioè la massa operaia e contadina organizzata dal PCI - sia gli intellettuali anche più avanzati e critici, non si erano accorti che “le lucciole stavano scomparendo”. Essi erano informati abbastanza bene dalla sociologia (che in quegli anni aveva messo in crisi il metodo dell’analisi marxista): ma erano informazioni ancora non vissute, in sostanza formalistiche. Nessuno poteva sospettare la realtà storica che sarebbe stato l’immediato futuro; né identificare quello che allora si chiamava “benessere” con lo “sviluppo” che avrebbe dovuto realizzare in Italia per la prima volta pienamente il “genocidio” di cui nel “Manifesto” parlava Marx.
I “valori” nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. Essi sopravvivono nel clerico-fascismo emarginato (anche il MSI in sostanza li ripudia). A sostituirli sono i “valori” di un nuovo tipo di civiltà, totalmente “altra” rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale. Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. Ma in Italia essa è del tutto particolare, perché si tratta della prima “unificazione” reale subita dal nostro paese; mentre negli altri paesi essa si sovrappone con una certa logica alla unificazione monarchica e alla ulteriore unificazione della rivoluzione borghese e industriale. Il trauma italiano del contatto tra l’”arcaicità” pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler. Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell’industrializzazione: con la conseguente formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e non ancor moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile corpo delle truppe naziste.
In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggiore violenza, poiché l’industrializzazione degli anni Settanta costituisce una “mutazione” decisiva anche rispetto a quella tedesca di cinquant’anni fa. Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a “tempi nuovi”, ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l’avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque “coi miei sensi” il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiani, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza. Vanamente il potere “totalitario” iterava e reiterava le sue imposizioni comportamentistiche: la coscienza non ne era implicata. I “modelli” fascisti non erano che maschere, da mettere e levare. Quando il fascismo fascista è caduto, tutto è tornato come prima.

Lo si è visto anche in Portogallo: dopo quarant’anni di fascismo, il popolo portoghese ha celebrato il primo maggio come se l’ultimo lo avesse celebrato l’annoprima .
È ridicolo dunque che Fortini retrodati la distinzione tra fascismo e fascismo al primo dopoguerra: la distinzione tra il fascismo fascista e il fascismo di questa seconda fase del potere democristiano non solo non ha confronti nella nostra storia, ma probabilmente nell’intera storia.
Io tuttavia non scrivo il presente articolo solo per polemizzare su questo punto, benché esso mi stia molto a cuore. Scrivo il presente articolo in realtà per una ragione molto diversa. Eccola.
Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani: in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere funebri. È vero: essi continuano a sfoderare radiosi sorrisi, di una sincerità incredibile. Nelle loro pupille si raggruma della vera, beata luce di buon umore. Quando non si tratti dell’ammiccante luce dell’arguzia e della furberia. Cosa che agli elettori piace, pare, quanto la piena felicità. Inoltre, i nostri potenti continuano imperterriti i loro sproloqui incomprensibili; in cui galleggiano i “flatus vocis” delle solite promesse stereotipe. In realtà essi sono appunto delle maschere. Son certo che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d’ossa o di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto. La spiegazione è semplice: oggi in realtà in Italia c’è un drammatico vuoto di potere. Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale Come siamo giunti, a questo vuoto? O, meglio, “come ci sono giunti gli uomini di potere?”.
La spiegazione, ancora, è semplice: gli uomini di potere democristiani sono passati dalla “fase delle lucciole” alla “fase della scomparsa delle lucciole” senza accorgersene. Per quanto ciò possa sembrare prossimo alla criminalità la loro inconsapevolezza su questo punto è stata assoluta; non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una “normale” evoluzione, ma sta cambiando radicalmente natura.
Essi si sono illusi che nel loro regime tutto sostanzialmente sarebbe stato uguale: che, per esempio, avrebbero potuto contare in eterno sul Vaticano: senza accorgersi che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, non sapeva più che farsene del Vaticano quale centro di vita contadina, retrograda, povera. Essi si erano illusi di poter contare in eterno su un esercito nazionalista (come appunto i loro predecessori fascisti): e non vedevano che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, già manovrava per gettare la base di eserciti nuovi in quanto transnazionali, quasi polizie tecnocratiche. E lo stesso si dica per la famiglia, costretta, senza soluzione di continuità dai tempi del fascismo, al risparmio, alla moralità: ora il potere dei consumi imponeva a essa cambiamenti radicali nel senso della modernità, fino ad accettare il divorzio, e ormai, potenzialmente, tutto il resto, senza più limiti (o almeno fino ai limiti consentiti dalla permissività del nuovo potere, peggio che totalitario in quanto violentemente totalizzante).
Gli uomini del potere democristiani hanno subito tutto questo, credendo di amministrarselo e soprattutto di manipolarselo. Non si sono accorti che esso era “altro”: incommensurabile non solo a loro ma a tutta una forma di civiltà. Come sempre (cfr. Gramsci) solo nella lingua si sono avuti dei sintomi. Nella fase di transizione - ossia “durante” la scomparsa delle lucciole - gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state, organizzate dal ‘69 ad oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere.
Dico formalmente perché, ripeto, nella realtà, i potenti democristiani coprono con la loro manovra da automi e i loro sorrisi, il vuoto. Il potere reale procede senza di loro: ed essi non hanno più nelle mani che quegli inutili apparati che, di essi, rendono reale nient’altro che il luttuoso doppiopetto.
Tuttavia nella storia il “vuoto” non può sussistere: esso può essere predicato solo in astratto e per assurdo. È probabile che in effetti il “vuoto” di cui parlo stia già riempiendosi, attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l’intera nazione. Ne è un indice ad esempio l’attesa “morbosa” del colpo di Stato. Quasi che si trattasse soltanto di “sostituire” il gruppo di uomini che ci ha tanto spaventosamente governati per trenta anni, portando l’Italia al disastro economico, ecologico, urbanistico, antropologico.
In realtà la falsa sostituzione di queste “teste di legno” (non meno, anzi più funereamente carnevalesche), attuata attraverso l’artificiale rinforzamento dei vecchi apparati del potere fascista, non servirebbe a niente (e sia chiaro che, in tal caso, la “truppa” sarebbe, già per sua costituzione, nazista). Il potere reale che da una decina di anni le “teste di legno” hanno servito senza accorgersi della sua realtà: ecco qualcosa che potrebbe aver già riempito il “vuoto” (vanificando anche la possibile partecipazione al governo del grande paese comunista che è nato nello sfacelo dell’Italia: perché non si tratta di “governare”). Di tale “potere reale” noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche: non sappiamo raffigurarci quali “forme” esso assumerebbe sostituendosi direttamente ai servi che l’hanno preso per una semplice “modernizzazione” di tecniche. Ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola.

Corriere della Sera, P.P.PASOLINI

 

 

Capitolo 6

Come tutti i pomeriggi me ne stavo rannicchiato in poltrona ad ascoltare la musica preferita e scrivere o rileggere la lettera che avrei inviato al giornale,come abitudine,il lunedì e vedere se prima o poi si fossero decisi a pubblicare qualcosa.

.Lo squillo del telefono mi fece sussultare

Era un collega,un ragazzo sardo che si occupava di una nascente cellula del partito comunista all’interno dello stabilimento…

È esplosa una bomba nel salone”gridava concitato “…. della Banca Nazionale dell’Agricoltura, a piazza Fontana

È una carneficina….( la banca era infatti gremita per il mercato del venerdì ; era un giorno che tutti sapevano che venivano gli agricoltori da tutte le province )…..L’ordigno è stato collocato in modo da provocare il massimo numero di vittime: sotto il tavolo al centro del salone riservato alla clientela, di fronte agli sportelli…..Vieni …” continuava a gridare “dobbiamo fare qualcosa .non .lo so …ma si stanno riunendo studenti e lavoratori che ..vogliono gridare la loro protesta…fare qualcosa….non lo so…vieni!!!!!????.”

Quando arrivai sul posto,di lontano, perché era tutto transennato si intravedevano i locali devastati a testimoniare la potenza dell’esplosivo impiegato. Dicevano,quelli che sembravano più informati che l’attentato aveva causato sedici morti, di cui quattordici sul colpo, e ottantotto feriti Nelle ore che seguirono, vennero compiute perquisizioni nelle sedi di tutte le organizzazioni dell’estrema sinistra. Venne visitata anche qualche organizzazione d’estrema destra, ma senza molta convinzione, visto che le indagini risparmiarono Ordine Nuovo e Avanguardia nazionale, le più importanti.

hai visto…tu e le tue idee…..cosa combinate,adesso vedrai… sicuramente domani in fabbrica ti verranno a pescare e …poi vedrai.quello che succede.”

Antonio ascoltava in silenzio .poi scoppiò a piangere: “.non lo so …aspettiamo….. il governo sicuramente dovrà rispondere in parlamento di quest’attentato……sono sicuro che noi non siamo colpevoli…..coinvolti…perché prendersela con la gente comune e in questo modo infame…?

lo sai come la penso …le battaglie si combattono in parlamento…e nei posti di lavoro…..ma gia a te non interessano le mie idee…sono convinto che è opera della parte più reazionaria del Paese che ha paura e vuol dare un segnale forte….un attacco repressivo al movimento operaio….e purtroppo c’è una parte del popolo italiano che si beve tutto quello che gli raccontano senza fare niente…ti dico la verità....io odio quelli che non sono qua…a gridare contro tutto questo …odio…odio l’indifferenza…..questo silenzio assenso,questa paura di “compromettersi

Balbettai :“sono un tuo amico…non ti basta?....penso che è meglio tornare in pensione… sicuramente dalla televisione sapremo più e poi domani alle 4 mi devo svegliare…..”

avviati ..ci vediamo domani,…”rispose Antonio continuando a gridare qualcosa che non riuscivo a capire

Fu l’ultima volta che lo vidi,almeno di persona .

L’indomani o qualche giorno dopo,non ricordo…

Il capo del governo rispondeva alle interpellanze parlamentari in merito all’attentato

Mentre ascoltavo quel discorso o meglio quella serie di cose dettate a mo di ordini senza possibilità di replica…capii che un epoca di speranze,di cambiamenti era finita .

Che l’azione sconsiderata di qualche esaltato o come la pensavamo in tanti e come mi aveva suggerito Antonio “la parte più reazionaria dello stato ha dato un segnale ,un avvertimento …….. che era cominciata insomma una specie di controrivoluzione….”.vedrai le leggi ,leggine speciali !!!!!!”mi disse prima di salutarmi

Vedrai l’indifferenza generale”,….continuava a ripetere

Strappai quello che avevo scritto fino a quel momento e andai a riprendere e copiare integralmente uno degli articoli di Gramsci e lo spedii al giornale

Mai pubblicata.

: credo che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il rinnovatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che circonda la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scoraggia e qualche volta li fa desistere dall’impresa “eroica”. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E’ la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto “eroico” (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E quest’ultimo s’irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano. I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere. Odio gli indifferenti anche per questo e mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze meravigliose della mia parte già pulsare l’attività della città futura che appunto la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrificio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti e ogni opportunista.”

Mi misi a letto con uno dei mie libri

Cominciai a sfogliare le pagine svogliatamente;più per scacciare l’orrore di quello che avevo visto che leggere veramente

Mi sembrò, ma non ne sono sicuro ..di alzarmi dal letto e alzare al massimo il volume della radio come per stordirmi…per zittire le urla e i singhiozzi che avevo ascoltato in quella piazza che continuavano a echeggiare nella stanza; Continuai a leggere qualcosa…o sognare qualcosa?

Il discorso che sto per pronunziare dinanzi a voi forse non potrà essere, a rigor di termini, classificato come un discorso parlamentare.
Può darsi che alla fine qualcuno di voi trovi che questo discorso si riallaccia, sia pure attraverso il varco del tempo trascorso, a quello che io pronunciai in questa stessa Aula il 16 novembre.
Un discorso di siffatto genere può condurre, ma può anche non condurre ad un voto politico.
Si sappia ad ogni modo che io non cerco questo voto politico. Non lo desidero: ne ho avuti troppi.
L’articolo 47 dello Statuto dice:
”La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all’Alta corte di giustizia”.
Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c’è qualcuno che si voglia valere dell’articolo 47.
Il mio discorso sarà quindi chiarissimo e tale da determinare una chiarificazione assoluta.
Voi intendete che dopo aver lungamente camminato insieme con dei compagni di viaggio, ai quali del resto andrebbe sempre la nostra gratitudine per quello che hanno fatto, è necessaria una sosta per vedere se la stessa strada con gli stessi compagni può essere ancora percorsa nell’avvenire.

Sono io, o signori, che levo in quest’Aula l’accusa contro me stesso. Si è detto che io avrei fondato una Ceka. Dove? Quando? In qual modo? Nessuno potrebbe dirlo! Veramente c’è stata una Ceka in Russia, che ha giustiziato senza processo, dalle centocinquanta alle centosessantamila persone, secondo statistiche quasi ufficiali. C’è stata una Ceka in Russia, che ha esercitato il terrore sistematicamente su tutta la classe borghese e sui membri singoli della borghesia. Una Ceka, che diceva di essere la rossa spada della rivoluzione.
Ma la Ceka italiana non è mai esistita.
Nessuno mi ha negato fino ad oggi queste tre qualità: una discreta intelligenza, molto coraggio e un sovrano disprezzo del vile denaro.

Se io avessi fondato una Ceka, l’avrei fondata seguendo i criteri che ho sempre posto a presidio di quella violenza che non può essere espulsa dalla storia. Ho sempre detto, e qui lo ricordano quelli che mi hanno seguito in questi cinque anni di dura battaglia, che la violenza, per essere risolutiva, deve essere chirurgica, intelligente, cavalleresca.
Ora i gesti di questa sedicente Ceka sono stati sempre inintelligenti, incomposti, stupidi.
Ma potete proprio pensare che nel giorno successivo a quello del Santo Natale, giorno nel quale tutti gli spiriti sono portati alle immagini pietose e buone, io potessi ordinare un’aggressione alle l0 del mattino in via Francesco Crispi, a Roma, dopo il mio discorso di Monterotondo, che è stato f orse il discorso più pacificatore che io abbia pronunziato in due anni di Governo? Risparmiatemi di pensarmi così cretino.
E avrei ordito con la stessa intelligenza le aggressioni minori di Misuri e di Forni? Voi ricordate certamente il discorso del I° giugno. Vi è forse facile ritornare a quella settimana di accese passioni politiche, quando in questa Aula la minoranza e la maggioranza si scontravano quotidianamente, tantochè qualcuno disperava di riuscire a stabilire i termini necessari di una convivenza politica e civile fra le due opposte parti della Camera.
Discorsi irritanti da una parte e dall’altra. Finalmente, il 6 giugno, l’onorevole Delcroix squarciò, col suo discorso lirico, pieno di vita e forte di passione, l’atmosfera carica, temporalesca.
All’indomani, io pronuncio un discorso che rischiara totalmente l’atmosfera. Dico alle opposizioni: riconosco il vostro diritto ideale ed anche il vostro diritto contingente; voi potete sorpassare il fascismo come esperienza storica; voi potete mettere sul terreno della critica immediata tutti i provvedimenti del Governo fascista.
Ricordo e ho ancora ai miei occhi la visione di questa parte della Camera, dove tutti intenti sentivano che in quel momento avevo detto profonde parole di vita e avevo stabilito i termini di quella necessaria convivenza senza la quale non è possibile assemblea politica di sorta.
E come potevo, dopo un successo, e lasciatemelo dire senza falsi pudori e ridicole modestie, dopo un successo così clamoroso, che tutta la Camera ha ammesso, comprese le opposizioni, per cui la Camera si aperse il mercoledì successivo in un’atmosfera idilliaca, da salotto quasi, come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, non dico solo di far commettere un delitto, ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell’avversario che io stimavo perché aveva una certa crarerie, un certo coraggio, che rassomigliavano qualche volta al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi?
Che cosa dovevo fare? Dei cervellini di grillo pretendevano da me in quella occasione gesti di cinismo, che io non sentivo di fare perché repugnavano al profondo della mia coscienza. Oppure dei gesti di forza? Di quale forza? Contro chi? Per quale scopo?
Quando io penso a questi signori, mi ricordo degli strateghi che durante la guerra, mentre noi mangiavamo in trincea, facevano la strategia con gli spillini sulla carta geografica. Ma quando poi si tratta di casi al concreto, al posto di comando e di responsabilità si vedono le cose sotto un altro raggio e sotto un aspetto diverso.
Eppure non mi erano mancate occasioni di dare prova della mia energia. Non sono ancora stato inferiore agli eventi. Ho liquidato in dodici ore una rivolta di Guardie regie, ho liquidato in pochi giorni una insidiosa sedizione, in quarantott’ore ho condotto una divisione di fanteria e mezza flotta a Corfù.

Questi gesti di energia, e quest’ultimo, che stupiva persino uno dei più grandi generali di una nazione amica, stanno a dimostrare che non è l’energia che fa difetto al mio spirito.
Pena di morte? Ma qui si scherza, signori. Prima di tutto, bisognerà introdurla nel Codice penale, la pena di morte; e poi, comunque, la pena di morte non può essere la rappresaglia di un Governo. Deve essere applicata dopo un giudizio regolare, anzi regolarissimo, quando si tratta della vita di un cittadino!

Fu alla fine di quel mese, di quel mese che è segnato profondamente nella mia vita, che io dissi: “voglio che ci sia la pace per il popolo italiano”; e volevo stabilire la normalità della vita politica.
Ma come si è risposto a questo mio principio? Prima di tutto, con la secessione dell’Aventino, secessione anticostituzionale, nettamente rivoluzionaria. Poi con una campagna giornalistica durata nei mesi di giugno, luglio, agosto, campagna immonda e miserabile che ci ha disonorato per tre mesi. Le più fantastiche, le più raccapriccianti, le più macabre menzogne sono state affermate diffusamente su tutti i giornali! C’era veramente un accesso di necrofilia! Si facevano inquisizioni anche di quel che succede sotto terra: si inventava, si sapeva di mentire, ma si mentiva.
E io sono stato tranquillo, calmo, in mezzo a questa bufera, che sarà ricordata da coloro che verranno dopo di noi con un senso di intima vergogna.
E intanto c’è un risultato di questa campagna! Il giorno 11 settembre qualcuno vuol vendicare l’ucciso e spara su uno dei nostri migliori, che morì povero. Aveva sessanta lire in tasca.

Tuttavia io continuo nel mio sforzo di normalizzazione e di normalità. Reprimo l’ illegalismo.
Non è menzogna. Non è menzogna il fatto che nelle carceri ci sono ancor oggi centinaia di fascisti! Non è menzogna il fatto che si sia riaperto il Parlamento regolarmente alla data fissata e si siano discussi non meno regolarmente tutti i bilanci, non è menzogna il giuramento della Milizia, e non è menzogna la nomina di generali per tutti i comandi di Zona.
Finalmente viene dinanzi a noi una questione che ci appassionava: la domanda di autorizzazione a procedere con le conseguenti dimissioni dell’onorevole Giunta.
La Camera scatta; io comprendo il senso di questa rivolta; pure, dopo quarantott’ore, io piego ancora una volta, giovandomi del mio prestigio, del mio ascendente, piego questa Assemblea riottosa e riluttante e dico: siano accettate le dimissioni. Si accettano. Non basta ancora; compio un ultimo gesto normalizzatore: il progetto della riforma elettorale.
A tutto questo, come si risponde? Si. risponde con una accentuazione della campagna. Si dice: il fascismo è un’orda di barbari accampati nella nazione; è un movimento di banditi e di predoni! Si inscena la questione morale, e noi conosciamo la triste storia delle questioni morali in Italia.
Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto.
Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa!  Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!
Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento ad oggi.
In questi ultimi giorni non solo i fascisti, ma molti cittadini si domandavano: c’è un Governo? Ci sono degli uomini o ci sono dei fantocci? Questi uomini hanno una dignità come uomini? E ne hanno una anche come Governo?

Io ho voluto deliberatamente che le cose giungessero a quel determinato punto estremo, e, ricco della mia esperienza di vita, in questi sei mesi ho saggiato il Partito; e, come per sentire la tempra di certi metalli bisogna battere con un martelletto, così ho sentito la tempra di certi uomini, ho visto che cosa valgono e per quali motivi a un certo momento, quando il vento è infido, scantonano per la tangente.
Ho saggiato me stesso, e guardate che io non avrei fatto ricorso a quelle misure se non fossero andati in gioco gli interessi della nazione. Ma un popolo non rispetta un Governo che si lascia vilipendere! Il popolo vuole specchiata la sua dignità nella dignità del Governo, e il popolo, prima ancora che lo dicessi io, ha detto: Basta! La misura è colma!
Ed era colma perché? Perché la spedizione dell’Aventino ha sfondo repubblicano! Questa sedizione dell’ Aventino ha avuto delle conseguenze perché oggi in Italia, chi è fascista, rischia ancora la vita! E nei soli due mesi di novembre e dicembre undici fascisti sono caduti uccisi, uno dei quali ha avuto la testa spiaccicata fino ad essere ridotta un’ostia sanguinosa, e un altro, un vecchio di settantatre anni, è stato ucciso e gettato da un muraglione.
Poi tre incendi si sono avuti in un mese, incendi misteriosi, incendi nelle Ferrovie e negli stessi magazzini a Roma, a Parma e a Firenze.
Poi un risveglio sovversivo su tutta la linea, che vi documento, perché è necessario di documentare, attraverso i giornali, i giornali di ieri e di oggi: un caposquadra della Milizia ferito gravemente da sovversivi a Genzano; un tentativo di assalto alla sede del Fascio a Tarquinia; un fascista ferito da sovversivi a Verona; un milite della Milizia ferito in provincia di Cremona; fascisti feriti da sovversivi a Forlì; imboscata comunista a San Giorgio di Pesaro; sovversivi che cantano Bandiera rossa e aggrediscono i fascisti a Monzambano.
Nei soli tre giorni di questo gennaio l925, e in una sola zona, sono avvenuti incidenti a Mestre, Pionca, Vallombra: cinquanta sovversivi armati di fucili scorrazzano in paese cantando Bandiera rossa e fanno esplodere petardi; a Venezia, il milite Pascai Mario aggredito e ferito; a Cavaso di Treviso, un altro fascista è ferito; a Crespano, la caserma dei carabinieri invasa da una ventina di donne scalmanate; un capomanipolo aggredito e gettato in acqua a Favara di Venezia; fascisti aggrediti da sovversivi a Mestre; a Padova, altri fascisti aggrediti da sovversivi.
Richiamo su ciò la vostra attenzione, perché questo è un sintomo: il diretto l92 preso a sassate da sovversivi con rotture di vetri; a Moduno di Livenza, un capomanipolo assalito e percosso.
Voi vedete da questa situazione che la sedizione, dell’Aventino ha avuto profonde ripercussioni in tutto il paese. Allora viene il momento in cui si dice basta! Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza.
Non c’è stata mai altra soluzione nella storia e non ce ne sarà mai.
Ora io oso dire che il problema sarà risolto. Il fascismo, Governo e Partito, sono in piena efficienza.
Signori!
Vi siete fatte delle illusioni! Voi avete creduto che il fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Ma se io mettessi la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo, voi vedreste allora.
Non ci sarà bisogno di questo, perché il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell’Aventino. L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa.
Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario.
Voi state certi che nelle quarantott’ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l’area. Tutti sappiamo che ciò che ho in animo non è capriccio di persona, non è libidine di Governo, non è passione ignobile, ma è soltanto amore sconfinato e possente per la patria.”*

*discorso di Mussolini al parlamento dopo il delitto Matteotti

Capitolo 7

Tornai a Napoli,trasferito dall’alfa romeo alla nascente alfa-sud di Pomigliano d’Arco

Le lamiere ondulate che limitavano l’accesso alla stazione ,forse per lavori di manutenzione,qualcuno diceva che erano li da anni,più che una protezione davano l’impressione di essere un muro messo la apposta per non far vedere a chi arrivava la consunzione di una città prigioniera

La prima cosa una passeggiata lungo via Marina

Palazzoni rattoppati alla meglio portavano ancora i segni di una guerra che qui sembra non essere mai finita

Guardai le colline del Vomero e di Posillipo ;un mare di cemento aveva preso il posto del verde che da piccolo ammiravo e respiravo dal balcone di uno di quei palazzoni

Il verde era morto come i miei genitori,la mia ingenuità di bambino

Guardando quello scempio mi veniva in mente quando mio padre mi portava al cinema “pidocchietto”

Una vero asilo nido dove i genitori del quartiere portavano i bambini la mattina e li riprendevano il pomeriggio

Due film per venti lire

Vecchie pellicole che ogni tanto prendevano fuoco e sullo schermo una macchia bianca divorava scene che venivano distrutte per sempre e di cui noi bambini non avremo mai saputo,ma potuto solo immaginare.

Spesso ,quasi sempre ,le varie ipotesi finivano con una scazzottata generale che le maschere riuscivano a stento a calmare

Per tanti che non avevano mai abbandonato la loro città,la scelta di andare via o era casuale,come nel caso di Nino,perché il militare a Pesaro e non in un altro posto?o chiamati da parenti ,conoscenti,o a seguito di un “caporale”in questo caso erano quasi tutti muratori ,o braccianti agricoli convinti di fuggire dallo sfruttamento nelle proprie terre

Le mondine andavano a Torino per poi essere dirottate nelle paludi del vercellese

A differenza dei discorsi che faceva quella gente, lui amava la sua città.
Non ne conosceva tante poche per le verità;quelle visitate con i genitori sempre in Campania, una sola volta a Roma e un’altra volta a visitare un frate che diceva la gente facesse miracoli…..ma non ricordava il nome di quel paese ,quello del frate era padre Pio

.La sua città era tutta un’altra cosa,era bella! Proprio bella,tanto che nelle discussioni che sempre nascono su di essa ,non era quasi mai intervenuto
Il bello ,pensava,non ha bisogno di essere spiegato
Un po’ come la donna di cui sei innamorato per te è bella.

Bella e basta!
Decantarla un artificio, una specie di giustificazione al proprio amore ,alla propria devozione; trovarne i difetti significava non amarla abbastanza
Quella decisione era maturata negli ultimi due anni ,durante i quali troppi e repentini cambiamenti si erano succeduti in modo caotico
Nino “ era morto
Il suo funerale ateo,con la bandiera rossa sul feretro e quel furgone grigio del comune aveva meravigliato un po’ tutti.
“già il suo ateismo..”pensava Nino tutte le volte, mentre stringeva tra le mani il mazzo di garofani rossi che ogni domenica mattina gli portava ;un ateismo strano che non riusciva a capire.

********

Il primo dicembre del 1970 il progetto Fortuna-Baslini è approvato definitivamente alla Camera. In Italia, dopo anni di lunghi conflitti, il divorzio è legge dello stato. Lo stesso giorno dalle colonne del quotidiano “L’Avvenire”, portavoce della Conferenza Episcopale Italiana, un comitato di intellettuali cattolici capeggiato dal giurista Gabrio Lombardi annuncia che è già partita l’iniziativa per abolire la legge appena approvata, per mezzo di un referendum abrogativo.

Nei mesi precedenti le cronache politiche dei giornali italiani hanno parlato del lodo Fanfani. “La legge per il divorzio—sarebbe stata approvata solo dopo il varo della disciplina sul referendum abrogativo, e, quindi, solo dopo aver reso effettiva la possibilità del fronte antidivorzista di disporre di un’arma per sconfiggere la maggioranza parlamentare favorevole al progetto Fortuna-Baslini”.

Quella sul divorzio è una vicenda emblematica del nostro paese ,basti pensare che il primo stato moderno della penisola italiana a consentire nella propria legislazione il divorzio fu il regno di Napoli, sotto il governo di Gioacchino Murat. Il 1º gennaio 1809 entrò in vigore il Codice Napoleone, un codice civile che, fra le altre cose, consentiva il divorzio, il matrimonio civile, fra le polemiche che tali provvedimenti suscitarono nel clero più conservatore, che vedeva sottratto alle parrocchie il privilegio della gestione delle politiche familiari risalente al 1560

Una proposta di legge per l’istituzione del divorzio venne presentata per la prima volta al parlamento italiano nel 1878

A prendere l’iniziativa fu un deputato del Salento, Salvatore Morelli, noto per le sue doti di uomo integerrimo e per essere stato precedentemente rinchiuso in un carcere borbonico sotto accusa di cospirazione. Da tempo si occupava di problemi sociali ed in particolare di quelli riguardanti la famiglia. Il suo primo progetto di legge non ebbe successo, ma senza scoraggiarsi lo ripresentò due anni dopo, nel 1880, ottenendo un risultato parimenti negativo. Dopo la sua morte avvenuta nello stesso anno, il divorzio trovò altri fautori, e progetti di legge in suo favore vennero presentati nel 1882, nel 1883, e dopo un periodo di silenzio, comparirono ancora nel 1892 per opera dell’onorevole Villa. Ma fu necessario arrivare al febbraio del 1902 perché si avesse l’impressione che una legge divorzista stesse realmente prendendo forma. Infatti in quell’anno il Governo di Giuseppe Zanardelli presentò un disegno di legge che prevedeva il divorzio in caso di sevizie, adulterio, condanne gravi ed altro, ma anche questa volta il disegno di legge cadde con 400 voti sfavorevoli contro 13 in favore. Poi la prima guerra mondiale fece dimenticare ogni cosa. Nel 1920 ci fu battaglia fra i socialisti (che dichiaravano che in certi casi il divorzio«in virtù dei soli principi religiosi non si può rigettare») e il Partito popolare italiano, cioè i cattolici. Più tardi Mussolini, coi Patti Lateranensi, si pronunciò contro e dovettero passare 34 anni prima che la legge sul divorzio venisse rimessa in discussione.

Il mondo cattolico,il Vaticano,in tutte le diocesi italiane , parlamentari che si “riconoscevano”erano entrati in guerra

La Chiesa ancora una volta aveva fatto sentire il suo peso nell’ostacolare la funzione primaria di uno stato democratico “la sua laicità”

. “Se lo stato rinuncia a essere centro attivo e permanentemente di una cultura propria, autonoma, la Chiesa non può che trionfare sostanzialmente. E quando ciò avviene, lo Stato non solo non interviene come centro autonomo, ma distrugge ogni oppositore alla Chiesa che abbia la capacità di limitarne il dominio spirituale sulle moltitudini. Attraverso il Concordato che non è un comune trattato internazionale, si realizza di fatto un’interferenza di sovranità in un solo territorio statale, poiché tutti gli articoli di un concordato si riferiscono ai cittadini di uno solo degli Stati contrattanti, sui quali il potere sovrano di uno Stato esterno giustifica e rivendica determinati diritti e poteri di giurisdizione...”

”Il concordato è il riconoscimento esplicito di una doppia sovranità in uno stesso territorio statale”. Non nel senso ch’esiste una sovranità statale e una sovranità ecclesiastica, ma nel senso che quest’ultima si esplica in due modi: uno diretto (all’interno dello Stato del Vaticano) e l’altro indiretto (all’interno dello Stato

Mentre il concordato - limita l’autorità statale di una parte contraente, nel suo proprio territorio, e influisce e determina la sua legislazione e la sua amministrazione, nessuna limitazione è accennata per il territorio dell’altra parte: se limitazione esiste per quest’altra parte, essa si riferisce all’attività svolta nel territorio del primo Stato...”, in quanto appunto attività “indiretta”.
Perché accade questo? Perché è inevitabile. “Un concordato non è un comune trattato internazionale: nel concordato si realizza di fatto un’interferenza di sovranità in un solo territorio statale, poiché tutti gli articoli di un concordato si riferiscono ai cittadini di uno solo degli Stati contrattanti, sui quali il potere sovrano di uno Stato esterno giustifica e rivendica determinati diritti e poteri di giurisdizione...”
Ecco perché “i concordati intaccano in modo essenziale il carattere di autonomia della sovranità dello Stato moderno. Lo Stato ottiene una contropartita? Certamente, ma la ottiene nel suo stesso territorio per ciò che riguarda i suoi stessi cittadini”. In pratica lo Stato diventa “confessionale”, in quanto ha ottenuto “che la Chiesa non intralci l’esercizio del potere, ma anzi lo favorisca e lo sostenga”. (L’espressione “non intralci l’esercizio del potere” va appunto intesa nel senso che la Chiesa rinuncia a una gestione diretta del potere politico, limitandosi a quella indiretta, ovvero rinuncia a una guerra civile per motivi religiosi e accetta appunto il regime concordatario). “La Chiesa cioè s’impegna verso una determinata forma di governo... di promuovere quel consenso di una parte dei governati che lo Stato esplicitamente riconosce di non poter ottenere con mezzi propri...”
In sostanza, il regime concordatario è peculiare alla società borghese, la quale, fondandosi sulla proprietà privata dei fondamentali mezzi produttivi, non può ottenere il consenso democratico delle masse popolari: di qui la necessità di avvalersi del sostegno ideologico della Chiesa cattolica.
Non dobbiamo infatti dimenticare che, da parte cattolica, concordato significa “riconoscimento pubblico a una casta di cittadini dello stesso Stato di determinati privilegi politici. La forma non è più quella medievale, ma la sostanza è la stessa. Nello sviluppo della storia moderna, quella casta aveva visto attaccato e distrutto un monopolio di funzione sociale che spiegava e giustificava la sua esistenza, il monopolio della cultura e dell’educazione. Il concordato riconosce nuovamente questo monopolio, sia pure attenuato e controllato, poiché assicura alla casta posizioni e condizioni preliminari che, con le sole sue forze, con l’intrinseca adesione della sua concezione del mondo alla realtà effettuale, non potrebbe mantenere e avere”(ib.). In altri termini, il cattolicesimo-romano, se vuole salvaguardare i privilegi acquisiti con una forza politica propria, deve scendere a compromessi, nella società moderna, con una forza politica laica, sempre più secolarizzata.
Come è potuto accadere questo? Per la debolezza dello Stato. “Se lo Stato rinuncia a essere centro attivo e permanentemente attivo di una cultura propria, autonoma, la Chiesa non può che trionfare sostanzialmente”. E quando ciò avviene, “lo Stato non solo non interviene come centro autonomo, ma distrugge ogni oppositore della Chiesa
a.gramsci

 

 

«L’Italia è un paese cattolico». Quante volte ce lo siamo sentiti ripetere per giustificare un’attenzione particolare, da parte dello Stato, alle esigenze della Chiesa cattolica e una disparità di trattamento rispetto alle altre confessioni? Un inventario dei principali benefici di cui godono le istituzioni cattoliche in Italia.

Uno degli aspetti più problematici connessi a quel principio di laicità dello Stato che è assurto per merito della giurisprudenza della Corte costituzionale a momento supremo dell’ordinamento italiano, è certamente rappresentato dalle modalità di stanziamento e dalla quantità dei finanziamenti pubblici destinati alle Chiese ed agli istituti ad esse afferenti. Se, infatti, la laicità si configura non come indifferenza dello Stato davanti al fenomeno religioso, ma come garanzia di imparzialità ed equidistanza dei pubblici poteri dinanzi alle comunità religiose strutturate, in un contesto caratterizzato da pluralismo confessionale e culturale, allora il modo con cui viene strutturato il loro finanziamento pubblico e articolato il quadro delle agevolazioni fiscali loro concesse diviene del tutto centrale.

Quanto questo principio di equidistanza fatichi ad affermarsi in concreto nell’orizzonte del nostro paese lo dimostrano non solo la ritrosia ad accettare senza polemica le numerose sentenze della magistratura amministrativa con cui, per il rispetto delle altrui sensibilità religiose, è stato stabilito che non fossero applicabili le norme di epoca fascista che imponevano alla collettività l’ossequio alle manifestazioni della religione di Stato, o ancora il perdurare di formule cerimoniali che continuano a prevedere la partecipazione di alti prelati alle manifestazioni dei vari livelli istituzionali, ma anche e soprattutto il quadro complessivo dei finanziamenti pubblici destinati a vantaggio delle strutture della religiosità dominante, finanziamenti che, lungi dal poter essere annoverati solo come una congrua corresponsione a fronte di una indiscutibile funzione sociale da esse esercitata, arrivano perlopiù a configurare situazioni di anacronistico privilegio.

Una Chiesa «più uguale» delle altre

Anche la più superficiale delle analisi consente infatti di rilevare la considerevole disparità di trattamento che lo Stato riserva alla Chiesa cattolica rispetto alle altre confessioni religiose beneficiarie di Intesa, laddove mentre le seconde possono godere pressoché solo dei vantaggi derivanti dalle rispettive Intese – dagli sgravi fiscali alla possibilità di essere ammesse al riparto dei fondi dell’otto per mille delle dichiarazioni dei redditi – l’universo cattolico italiano trae beneficio dalle misure legislative più disparate, un coacervo di disposizioni non solo di natura concordataria che rende gravoso anche solo individuare in modo del tutto approssimativo il totale dei fondi pubblici che a vario titolo ad esso sono destinati.

Furono gli stessi costituenti ad ammettere in modo implicito, sia pure in un contesto votato al pluralismo e alla piena tutela della libertà di coscienza e di religione, una diversità di attenzione nei confronti della Chiesa cattolica; con l’articolo 7 della nostra Carta costituzionale, la cui approvazione fu resa possibile dall’appoggio del Partito comunista di Togliatti, si volle «costituzionalizzare» non già i Patti lateranensi, pur richiamati come fondamento dei rapporti bilaterali, ma la modalità di definizione dei rapporti Stato-Chiesa, e ciò in considerazione del peculiare ruolo riconosciuto alla gerarchia ecclesiastica vaticana e alla fede cattolica nella storia e nella coscienza del popolo italiano.

Per un immanente senso di colpa o di minorità nei confronti della cattolicità, sfigurata dalla privazione violenta del suo potere temporale ad opera delle truppe italiane, o per un sincero sentimento di riconoscenza verso l’universo culturale e religioso da essa rappresentato, o ancora per un tornaconto talvolta di infimo livello che denota quantomeno scarsa lungimiranza, la classe politica italiana è sempre stata incline a manifestare tendenze risarcitorie nei confronti delle autorità vaticane: già la cosiddetta «legge delle guarentigie», approvata nel maggio del 1871 e peraltro mai compiutamente attuata per la ferma opposizione pontificia, pur concepita nel solco del pensiero di Cavour, che era fautore di una netta separazione dei due ambiti, volle conservare a favore della Santa Sede la dotazione annua, già iscritta nel bilancio dello Stato ecclesiastico, di 3.225.000 lire. Nel 1929 fu poi Mussolini, desideroso di accreditarsi agli occhi dell’opinione pubblica italiana come l’uomo capace di ricomporre la frattura dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa, a promuovere la stipula dei Patti lateranensi, strumento che, nella parte relativa alla convenzione finanziaria, disponeva l’obbligo per l’Italia di versare alla Santa Sede 750 milioni di lire in contanti e un miliardo di lire in titoli azionari quale risarcimento per gli ingenti danni subiti a seguito della perdita del Patrimonio di San Pietro, mentre nel Concordato accordava tutta una serie di esenzioni ai numerosi istituti afferenti l’universo del cattolicesimo italiano, tale da garantirgli negli anni immediatamente successivi una enorme accumulazione di beni e risorse sull’intero territorio nazionale.

I molti privilegi ancora in vigore

Quanto ancora oggi pesi sulla vita del paese, condizionandone scelte e visioni, questo legato culturale, sociale e politico esercitato dalla Chiesa cattolica e dall’episcopato italiano è sotto gli occhi di tutti. Meno noto è, viceversa, il quadro dei finanziamenti di cui attualmente il mondo cattolico continua a beneficiare. Per tracciarne una sintesi che, senza alcuna pretesa di esaustività ed escludendo i fondi destinati al sostegno degli organismi cattolici di carità o impegnati nella cooperazione allo sviluppo, dia conto delle principali misure di sostegno finanziario che la legislazione italiana, a livello statale, ha garantito alla Chiesa cattolica e agli enti ad essa legati in un anno recente preso a riferimento, è possibile avvalersi del documento di contabilità pubblica che reca gli impegni di spesa per l’esercizio finanziario 2004, nonché delle misure concretamente stabilite dalla Finanziaria 2004 e da altre disposizioni normative approvate nel corso del 2003 e degli anni precedenti.

Occorre preliminarmente diversificare le misure di sostegno economico che derivano, in modo più o meno diretto, dal Concordato, ovvero da quell’accordo bilaterale che, firmato nel 1984 e recepito nel nostro ordinamento dalla legge 121/1985, nel rinnovare i Patti lateranensi costituisce ad oggi la fonte principale di disciplina dei rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, dalle altre misure che sembrano, viceversa, non direttamente correlate al contenuto di quell’accordo.

Otto per mille e finanziamenti alle scuole private

Il principale degli strumenti di derivazione concordataria è certamente rappresentato dall’otto per mille del gettito derivante dalle dichiarazioni dei redditi: nel 2004 la Chiesa cattolica si è vista destinare oltre 310 milioni di euro per scelta espressa dei contribuenti italiani, beneficiando altresì del riparto successivo dei fondi relativi alle scelte non espresse per ulteriori 472.594.000 di euro, per un totale complessivo di oltre 782.700.000 euro. A questa cifra deve essere aggiunta anche la quota dell’otto per mille che, destinata dai contribuenti italiani allo Stato, è stata da quest’ultimo stornata, sotto forma di finanziamento per la conservazione dei beni culturali, alla Chiesa cattolica attraverso opere di ristrutturazione di chiese, conventi, università confessionali, istituti di cultura religiosa, e che ammonta a 9.410.989 euro, su di un totale di 20.517.592 euro a disposizione dello Stato.

In materia di insegnamento della religione cattolica, altra voce di derivazione concordataria, occorre annoverare, come previsioni di spesa per l’anno 2004, 477.735.207 euro; a questa cifra deve altresì aggiungersi il costo relativo alla equiparazione a tutti gli effetti degli insegnanti di religione cattolica agli altri docenti di ruolo, disposto dalla legge 186/2003 e pari a 19.289.150 euro.

Vi è quindi il tema, annoso e controverso, della parità scolastica. Per garantire agli studenti delle scuole private le medesime condizioni godute da quelli delle strutture pubbliche, lo Stato ha impegnato nel 2004, ai sensi della legge 62/2000, 30 milioni di euro, erogabili sotto forma di buoni scuola; di questa cifra si può stimare, stando ai dati del Centro studi scuole cattoliche e relativi al numero degli alunni delle scuole cattoliche sul totale degli studenti delle scuole non statali, che almeno il 59% sia andato a vantaggio delle strutture cattoliche, per una somma pari a circa 17.700.000 euro.

Ma lo Stato, nonostante l’articolo 33 della Costituzione preveda che la libertà degli enti e dei privati di istituire scuole ed istituti di educazione debba essere pienamente garantita ma senza oneri per la collettività, non si limita al finanziamento dei soli buoni scuola, ma stanzia annualmente ed in modo diretto anche fondi per le scuole non statali; nel 2004, ai sensi di una circolare del Ministero per l’Istruzione, l’università e la ricerca, il totale di detti fondi è stato pari a 527.474.474 euro, il 49% dei quali può stimarsi essere stato destinato alle scuole cattoliche, per un ammontare di 258.462.492 euro.

Aiuti diretti e indiretti: Ici, oratori, ospedali, università...

Sempre di derivazione concordataria, anche se ufficialmente prevista solo dalla legge 222/1985 nonché dal D.P.R. 917/1986, risulta essere la previsione circa la deducibilità fiscale delle donazioni private a favore della Chiesa cattolica. Stando alle indicazioni fornite dall’Istituto centrale per il sostentamento del clero cattolico, si può arrivare a stimare che nel 2004 il totale delle offerte volontarie destinate ai prelati cattolici sia stato pari a 18 milioni di euro. Calcolando in modo approssimativo il mancato introito fiscale da parte dello Stato su questa cifra, ricorrendo per il calcolo del prelievo dovuto ad una fascia di contribuenti donatori dal reddito medio lordo compreso fra i 20.000 ed i 32.600 euro annui, si può arrivare ad una stima, per il solo 2004, di 5.580.060 euro.

Da ultimo, fra gli strumenti in qualche modo riferibili al quadro concordatario e concretamente previsti dalla legge 222/1985, vi è il Fondo per la costruzione degli edifici di culto che, per il 2004, è stato pari a 1.807.599 euro.

L’esame delle altre disposizioni che, pur non riferibili al quadro tracciato dal Concordato, stabiliscono misure economiche a favore del mondo cattolico, inizia da alcune munifiche leggi del 2003. In particolare la legge 206/2003 – approvata a larghissima maggioranza – ha previsto il finanziamento diretto degli oratori parrocchiali, riconoscendone esplicitamente la valenza sociale, per 2.500.000 euro annui. A sua volta, la legge 244/2003, nel ratificare e dare esecuzione ad una Convenzione sottoscritta fra la Santa Sede e la Repubblica italiana nel 2000, ha disposto l’erogazione, per il 2004, di 9.397.000 euro per la sicurezza sociale dei dipendenti vaticani e dei loro familiari.

Se poi la legge 293/2003 ha concesso un contributo aggiuntivo per il 2004 di 1.500.000 euro in favore dell’Istituto di studi politici san Pio V di Roma, anche la Finanziaria 2004 (legge 350/2003) non è stata avara di provvidenze per la Chiesa: essa ha tra l’altro previsto il finanziamento per 5 milioni di euro dell’ospedale Casa Sollievo della sofferenza di San Giovanni Rotondo, il rifinanziamento per 20 milioni di euro dell’Università campus-biomedico (Cbm), e, curioso a sapersi, l’integrale esborso per la fornitura dei Servizi idrici dello stato della Città del Vaticano per un importo, limitatamente al 2004, pari a 25.000.000 di euro.

Delle quattordici università non statali ammesse al finanziamento pubblico ai sensi della legge 243/1991, che complessivamente hanno potuto beneficiare per il solo 2004 di uno stanziamento pari a 124.149.000 euro, si può stimare che le cinque università cattoliche abbiano percepito fondi per 44.338.929 euro.

Fra i contributi pubblici forse meno conosciuti a favore del mondo cattolico vi è poi l’onere per i circa 200 stipendi erogati a favore dei cappellani militari presenti nel Paese, onere che, previsto dalla legge 512/1961 a totale carico dello Stato, si può stimare essere stato, per il solo 2004 e stando alla rielaborazione dei dati rinvenibili sul sito web dell’Ordinariato militare in Italia, a circa 8 milioni di euro.

In materia previdenziale, ai sensi delle leggi 791/1981 e 903/1973, è da annoverare anche il Fondo di previdenza per il clero, che, per il solo 2004 e relativamente ai fondi erogati a favore della componente cattolica, può attendibilmente stimarsi in 6.713.253 euro.

Da ultime, relativamente al 2004, sono da ricordare anche misure che, destinate al finanziamento di strutture legate all’organizzazione ecclesiastica o all’esenzione di particolari soggetti dal pagamento dei tributi dovuti, impongono un ulteriore onere economico per lo Stato, ma che, stanti gli attuali strumenti di rendicontazione pubblica, non possono essere quantificabili. Oltre alle esenzioni dall’Iva e dalle dichiarazioni dei redditi per gli enti ecclesiastici – di cui rispettivamente al dpr 633/1972 e al dpr 917/1986 – sono in tal senso da annoverare soprattutto i fondi pubblici erogati a favore degli ospedali, delle strutture di ricovero e dei policlinici cattolici; si tratta certamente di una cifra davvero ragguardevole, dal momento che costituiscono una parte non secondaria del totale dei finanziamenti pubblici destinati alla sanità convenzionata (non necessariamente di tipo confessionale), che, per il 2004 assommava a circa 1.500 miliardi di euro.

Se il prospetto dei finanziamenti pubblici ha dovuto considerare, per esigenze di equilibrio e di completezza, il 2004 come anno di riferimento, le misure disposte da leggi successive a questa data contribuiranno piuttosto ad aumentare la cifra totale degli aiuti pubblici destinati alla Chiesa cattolica, che non a diminuirne la portata. Solo per limitarsi agli ultimi – molto discussi – provvedimenti, l’esenzione totale degli immobili ecclesiastici dal pagamento dell’Ici (Imposta comunale sugli immobili) – disposta da una norma interpretativa contenuta nella legge 248/2005 – comporterà, stanti le previsioni dell’Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci), un ammanco per le già magre casse degli enti comunali per 700 milioni di euro, a quasi esclusivo vantaggio della Conferenza episcopale italiana.

Alla prodigalità dello Stato nei confronti della Chiesa cattolica, si è peraltro aggiunto anche il particolare favore con cui le Regioni, pur gravate da incipienti deficit di bilancio, hanno continuato a dispensare a suo favore contributi pubblici sotto forma di ulteriori buoni scuola o di generosi finanziamenti al comparto della sanità convenzionata.

Non è il caso di tracciarne qui un profilo completo; resta tuttavia l’interrogativo, del tutto legittimo e di certo non mosso da rigurgiti anticlericali, se lo Stato abbia inteso sostenere in un modo tanto generoso la Chiesa perché consapevole e compartecipe della missione spirituale e sociale di questa o abbia viceversa, abdicando largamente ai propri doveri di solidarietà anche nei confronti di quei cittadini che non si riconoscono in quel quadro di valori, continuato ad alimentare le casse vaticane per ragioni di convenienza politica. Se un’azione di Governo ed un quadro legislativo improntati a ragioni di equidistanza e di imparzialità rispetto ai fenomeni religiosi possono secondo taluni essere ricondotti a forme di inaccettabile relativismo etico, è certo che lo stretto sostegno economico e la contiguità con i poteri pubblici di cui i numerosi istituti cattolici beneficiano rischiano letteralmente di svuotare di significato quel principio, faticosamente desunto in via giurisprudenziale, della laicità dello Stato, condizione essenziale perché la libertà di tutti possa essere pienamente rispettata.

E non sembra valere la considerazione che il cattolicesimo resti la religione largamente dominante nel paese per giustificare acriticamente questo copioso fiume di denaro, dal momento che è lecito presumere come sia proprio la scarsa conoscenza dei meccanismi e dei volumi di finanziamento di cui gode la Chiesa cattolica a non indurre una seria riflessione sull’argomento da parte dell’opinione pubblica. Una riflessione che, alla vigilia delle elezioni politiche, nessuno degli schieramenti candidati alla guida del paese avrà probabilmente interesse a sollevare.

Gianluca Polverari

 

 

 

 

 

 

Capitolo8

Nell’ottobre del 1968 Luigi Longo, segretario del Pci, è vittima di un ictus cerebrale. Continuerà per qualche anno a svolgere una certa attività pubblica, ma non sarà più in grado di dirigere il partito. Dal quel momento le redini del più grande partito comunista d’occidente passano di fatto nelle mani del vice-segretario Enrico Berlinguer.

PARTE DEL DISCORSO CONCLUSIVO DEL XII CONGRESSO NAZIONALE P.C.I. BOLOGNA 15-02-1969.

Il Compagno Longo ha riconfermato con grande chiarezza la nostra scelta di una via democratica al socialismo,ha riconfermato,cioè,che noi concepiamo l’avvento al potere della classe operaia e delle masse lavoratrici,come un processo che deve svolgersi sul terreno della democrazia e del suo sviluppo conseguente,in un intreccio non separabile di lotte sociali e di massa e di battaglie politiche e parlamentari,in un movimento che tenda a raggiungere,anche prima della conquista del potere,sempre nuove e più solide posizioni di controllo e di potere delle classi lavoratrici in tutte le sfere della società civile,tali da accrescere la loro influenza diretta ed indiretta sugli indirizzi della politica nazionale e sul corso stesso dello sviluppo economico e sociale,in un movimento che solleciti in pari tempo una continua estensione delle libertà,un generale avanzamento della democrazia politica.
Questa nostra scelta nasce da ragioni storiche e di principio molto profonde e si colora oggi di significati nuovi.
Essa viene prima di tutto dal fatto che in conseguenza delle modifiche che si producono nelle strutture del capitalismo quando esso entra nella fase imperialistica,monopolistica ed autoritaria,il problema della libertà e della democrazia com’ebbe ad affermare una volta il compagno Togliatti,
.
Le sorti della libertà, la loro estensione fino ai confini estremi in cui la democrazia supera ogni limite di classe per trasformarsi in democrazia socialista .sono affidate essenzialmente alle posizioni di forza che la classe operaia e le masse lavoratrici riescono a conquistare.
E proprio l’Italia è uno dei paesi in cui questo spostamento nella posizione delle opposte classi sociali verso i problemi della
della libertà e della democrazia ha assunto le manifestazioni più evidenti,con tutto il processo storico che si è venuto svolgendo negli ultimi decenni e che ha visto la classe operaia assumere,prima,una funzione di guida nella lotta contro il fascismo,dare successivamente una propria impronta alla elaborazione di una Costituzione di tipo nuovo, e divenire infine,con le lotte combattute negli anni successivi,il fattore decisivo per il mantenimento e lo sviluppo di quegli elementi più o meno estesi di democrazia che esistono nel nostro assetto politico.
Una volta richiamato questo fondamento essenziale della nostra scelta, sorge il problema,ed è problema che assume oggi aspetti nuovi,di come la difesa e lo sviluppo delle libertà democratiche debbano essere utilizzati non solo per garantire sempre meglio la soddisfazione degli interessi immediati delle masse lavoratrici,ma per trasformare le strutture dell’economia e per rinnovare gli stessi istituti democratici, per introdurre,quindi in tutta la vita politica e sociale forme nuove di democrazia diretta e assicurare così una reale partecipazione dei lavoratori alla direzione dell’economia e della vita pubblica.
Come è stato sottolineato da molti compagni con ricchezza di argomentazioni e di esempi,il fatto più importante dei processi che si sono sviluppati nel nostro paese nell’ultimo periodo è costituito proprio dall’intreccio di tipo nuovo e più ravvicinato che è venuto e viene stabilendosi tra tutti questi momenti dell’azione delle masse lavoratrici,tra i vari aspetti della lotta nella sfera e quelli della lotta e della iniziativa nella sfera politica.
Questo avvicinamento si manifesta in modo sempre più evidente in quasi tutti i movimenti delle masse lavoratrici.
E si manifesta inoltre in altri movimenti,come quello degli studenti prima di tutto; ma esso si riflette,in modo o nell’altro,anche in questi fenomeni che non interessano solo o prevalentemente la sfera sociale,perché si esprimono in tensioni nove che hanno luogo anche nella vita culturale,nel costume, e persino nel settore della religiosità

 

 

Nel 1974,anche se con qualche riserva fui eletto vicesegretario di cellula nel reparto verniciatura.

La grande svolta voluta da Berlinguer ,l’idea stessa di un comunismo europeo,che si differenziava da quello francese e spagnolo soprattutto su questioni internazionali,portò il PCI alle elezioni politiche del 1972 al 29% di consensi alla camera dei deputati e al 28 e qualcosa % al senato.

C’era grande euforia e s’intravedeva la possibilità di un sorpasso e una nuova direzione del Paese

Ben presto,come ci ha insegnato la storia di questo Paese ,al progresso c’è una parte che risponde con efferata violenza

La mattina del 28 maggio 1974 una bomba esplode sotto i portici di piazza della Loggia a Brescia, mentre era in corso una manifestazione antifascista indetta dai sindacati e dal Comitato antifascista. L’attentato rivendicato da Ordine Nero, provocò otto morti e più di novanta feriti. L’ordigno era stato posto in un cestino portarifiuti e fatto esplodere con un congegno elettronico a distanza.

Le forze politiche si dibattevano nella ricerca di una soluzione al fenomeno “terrorismo”

Era nell’aria fin troppo evidente un ricorso a leggi restrittive per quanto riguardava le libertà individuali e altro

La cosiddetta emergenza terrorismo provocò una involuzione poliziesca dello Stato italiano, con una diminuzione delle libertà costituzionali ed un ampliamento della discrezionalità delle forze di polizia. L’ampliamento del ricorso ai reati associativi o di pericolo presunto, fu l’ossatura normativa di un’emergenza che poi in Italia non è mai terminata

Emblematica questa legge: è in questo senso la legge Reale (n. 152 del 22/5/1975), che autorizzava la polizia a sparare nei casi in cui ne ravvisasse necessità operativa.
La legge in questione suscitò molte polemiche e fu sottoposta a
referendum, attuato l’11 giugno 1978, da cui risultò il favore dell’opinione pubblica per76,5% votò per il mantenimento e il 23,5% per l’abrogazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

Sul reato di associazione e quello che si nasconde dietro è esplicativo il discorso che Gramsci fece in proposito in parlamento contro un disegno di legge :

Il disegno di legge contro le società segrete è stato presentato alla Camera come un disegno di legge contro la massoneria; esso è il primo atto reale del fascismo per affermare quella che il Partito fascista chiama la sua rivoluzione. Noi, come Partito comunista, vogliamo ricercare non solo il perché della presentazione del disegno di legge contro le organizzazioni in generale, ma anche il significato del perché il Partito fascista ha presentato questa legge rivolta prevalentemente contro la massoneria.
Noi siamo tra i pochi che abbiano preso sul serio il fascismo, anche quando il fascismo sembrava fosse solamente una farsa sanguinosa, quando intorno al fascismo si ripetevano solo i luoghi comuni sulla “psicosi di guerra”, quando tutti i partiti cercavano di addormentare la popolazione lavoratrice presentando il fascismo come un fenomeno superficiale, di brevissima durata.
Nel novembre 1920 abbiamo previsto che il fascismo sarebbe andato al potere - cosa allora inconcepibile per i fascisti stessi - se la classe operaia non avesse fatto a tempo ad frenare, con le armi, la sua avanzata sanguinosa**.
Il fascismo, dunque, afferma oggi praticamente di voler “conquistare lo Stato”. Cosa significa questa espressione ormai diventata luogo comune? E che significato ha, in questo senso, la lotta contro la massoneria?
Poiché noi pensiamo che questa fase della “conquista fascista” sia una delle più importanti attraversate dallo Stato italiano, e per ciò che riguarda noi che sappiamo di rappresentare gli interessi della grande maggioranza del popolo italiano, gli operai e i contadini, così crediamo necessaria un’analisi, anche se affrettata, della questione.
Che cos’è la massoneria? Voi avete detto molte parole sul significato spirituale, sulle correnti ideologiche che essa rappresenta, ecc.; ma tutte queste sono forme di espressione di cui voi vi servite solo per ingannarvi reciprocamente, sapendo di farlo.
La massoneria, dato il modo con cui si è costituita l’Italia in unità, data la debolezza iniziale della borghesia capitalistica italiana, la massoneria è stata l’unico partito reale ed efficiente che la classe borghese ha avuto per lungo tempo. Non bisogna dimenticare che poco meno che venti anni dopo l’entrata a Roma dei piemontesi, il Parlamento è stato sciolto e il corpo elettorale da circa 3 milioni di elettori è stato ridotto ad 800mila.
È stata questa la confessione esplicita da parte della borghesia di essere un’infima minoranza della popolazione, se dopo venti anni di unità essa è stata costretta a ricorrere ai mezzi più estremi di dittatura per mantenersi al potere, per schiacciare i suoi nemici di classe, che erano i nemici dello Stato unitario.
Quali erano questi nemici? Era prevalentemente il Vaticano, erano i gesuiti, e bisogna ricordare all’onorevole Martire come, accanto ai gesuiti che vestono l’abito talare, esistono i gesuiti laici, i quali non hanno nessuna speciale uniforme che indichi il loro ordine religioso.
Nei primi anni dopo la fondazione del regno i gesuiti hanno dichiarato espressamente in tutta una serie di articoli pubblicati da “Civiltà cattolica” quale fosse il programma politico del Vaticano e delle classi che allora erano rappresentanti del Vaticano, cioè delle vecchie classi semifeudali, tendenzialmente borboniche nel meridione, o tendenzialmente austriacanti nel Lombardo-Veneto, forze sociali numerosissime che la borghesia capitalistica non è riuscita mai a contenere, quantunque nel periodo del Risorgimento essa rappresentasse un progresso, e un principio rivoluzionario. I gesuiti della “Civiltà cattolica”, e cioè il Vaticano, ponevano a scopo della loro politica come primo punto il sabotaggio dello Stato unitario, attraverso l’astensione parlamentare, il frenamento dello Stato liberale per tutte quelle sue attività che potevano corrompere e distruggere il vecchio ordine; come secondo punto, la creazione di un’armata di riserva rurale da porre contro l’avanzata del proletariato, poiché fin dal ‘71 i gesuiti prevedevano che sul terreno della democrazia liberale sarebbe nato il movimento proletario, che si sarebbe sviluppato un movimento rivoluzionario.
L’onorevole Martire ha oggi dichiarato che finalmente è stata raggiunta, alle spese della massoneria, l’unità spirituale della nazione italiana.
Poiché la massoneria in Italia ha rappresentato l’ideologia e l’organizzazione reale della classe borghese capitalistica, chi è contro la massoneria è contro il liberalismo, è contro la tradizione politica della borghesia italiana. Le classi rurali che erano rappresentate nel passato dal Vaticano, sono rappresentate oggi prevalentemente dal fascismo; è logico pertanto che il fascismo abbia sostituito il Vaticano e i gesuiti nel compito storico, per cui le classi più arretrate della popolazione mettono sotto il loro controllo la classe che è stata progressiva nello sviluppo della civiltà; ecco il significato della raggiunta unità spirituale della nazione italiana, che sarebbe stato un fenomeno di progresso 50 anni fa; ed è oggi invece il fenomeno più grande di regressione ...
La borghesia industriale non è stata capace di frenare il movimento operaio, non è stata capace di controllare né il movimento operaio, né quello rurale rivoluzionario. La prima istintiva e spontanea parola d’ordine del fascismo, dopo l’occupazione delle fabbriche è stata perciò questa : “I rurali controlleranno la borghesia urbana, che non sa essere forte contro gli operai”.
Se non m’inganno, allora, onorevole Mussolini, non era questa la vostra tesi, e tra il fascismo rurale e il fascismo urbano dicevate di preferire il fascismo urbano ...
[Interruzioni].
Mussolini. Bisogna che la interrompa per ricordarle un mio articolo di alto elogio del fascismo rurale del 1921-22.
Gramsci. Ma questo non è un fenomeno puramente italiano, quantunque in Italia, per la più grande debolezza del capitalismo abbia avuto il massimo di sviluppo; è un fenomeno europeo e mondiale, di estrema importanza per comprendere la crisi generale del dopoguerra, sia nel dominio dell’attività pratica che nel dominio delle idee e della cultura.
L’elezione di Hindenburg in Germania, la vittoria dei conservatori in Inghilterra, con la liquidazione dei rispettivi partiti liberali democratici, sono il corrispettivo del movimento fascista italiano; le vecchie forze sociali, ma non assorbite completamente da esso, hanno preso il sopravvento nell’organizzazione degli Stati, portando nell’attività reazionaria tutto il fondo di ferocia e di spietata decisione che è stata sempre loro propria; ma in sostanza noi abbiamo un fenomeno di regressione storica che non è e non sarà senza risultanza per lo sviluppo della rivoluzione proletaria. Esaminata su questo terreno, l’attuale legge contro le associazioni sarà una forza o è invece destinata ad essere completamente irrita e vana? Corrisponderà essa alla realtà, potrà essere il mezzo per una stabilizzazione del regime capitalistico o sarà solo un nuovo perfezionato strumento dato alla polizia per arrestare Tizio, Caio e Sempronio? ...
Il problema pertanto è questo: la situazione del capitalismo in Italia si è rafforzata o si è indebolita dopo la guerra, col fascismo? Quali erano le debolezze della borghesia capitalistica italiana prima della guerra, debolezze che hanno portato alla creazione di quel determinato sistema politico massonico che esisteva in Italia, che ha avuto il suo massimo sviluppo nel giolittismo? Le debolezze massime della vita nazionale italiana erano in primo luogo la mancanza di materie prime, cioè l’impossibilità della borghesia di creare in Italia una industria che avesse una sua radice profonda nel paese e che potesse progressivamente svilupparsi, assorbendo la mano d’opera esuberante. In secondo luogo, la mancanza di colonie legate alla madre patria, quindi l’impossibilità per la borghesia di creare una aristocrazia operaia che permanentemente potesse essere alleata della borghesia stessa. Terzo la questione meridionale, cioè la questione dei contadini, legata strettamente al problema dell’emigrazione, che è la prova della incapacità della borghesia italiana di mantenere ... Interruzioni.
Mussolini. Anche i tedeschi sono emigrati a milioni.
Gramsci. Il significato dell’emigrazione in massa dei lavoratori è questo: il sistema capitalistico, che è il sistema predominante, non è in grado di dare il vitto, l’alloggio e i vestiti alla popolazione, e una parte non piccola di questa popolazione è costretta ad emigrare ...
Rossoni. Quindi la nazione si deve espandere nell’interesse del proletariato.
Gramsci. Noi abbiamo una nostra concezione dell’imperialismo e del fenomeno coloniale, secondo la quale essi sono prima di tutto una esportazione di capitale finanziario. Finora l’”imperialismo” italiano è consistito solo in questo: che l’operaio italiano emigrato lavora per il profitto dei capitalisti degli altri paesi, cioè finora l’Italia è solo stata un mezzo dell’espansione del capitale finanziario non italiano. Voi vi sciacquate sempre la bocca con le affermazioni più puerili di una pretesa superiorità demografica dell’Italia sugli altri paesi; voi dite sempre, per esempio, che l’Italia demograficamente è superiore alla Francia. È una questione questa che solo le statistiche possono risolvere perentoriamente, ed io qualche volta mi occupo di statistiche; ora una statistica pubblicata nel dopoguerra, mai smentita, e che non può essere smentita, afferma che l’Italia di prima della guerra dal punto di vista demografico, si trovava già nella stessa situazione della Francia dopo la guerra; ciò è determinato dal fatto che l’emigrazione allontana dal territorio nazionale una tal massa di popolazione maschile, produttivamente attiva, che i rapporti demografici diventano catastrofici. Nel territorio nazionale rimangono vecchi, donne, bambini, invalidi, cioè la parte della popolazione passiva, che grava sulla popolazione lavoratrice in una misura superiore a qualsiasi altro paese, anche alla Francia.
È questa la debolezza fondamentale del sistema capitalistico italiano, per cui il capitalismo italiano è destinato a scomparire tanto più rapidamente quanto più il sistema capitalistico mondiale non funziona più per assorbire l’emigrazione italiana, per sfruttare il lavoro italiano, che il capitalismo nostrale è impotente a inquadrare.
I partiti borghesi, la massoneria, come hanno cercato di risolvere questi problemi?
Conosciamo nella storia italiana degli ultimi tempi due piani politici della borghesia per risolvere la questione del governo del popolo italiano. Abbiamo avuto la pratica giolittiana, il collaborazionismo del socialismo italiano con il giolittismo, cioè il tentativo di stabilire una alleanza della borghesia industriale con una certa aristocrazia operaia settentrionale per opprimere, per soggiogare a questa formazione borghese-proletaria la massa dei contadini italiani, specialmente nel Mezzogiorno. Il programma non ha avuto successo. Nell’Italia settentrionale si costituisce difatti una coalizione borghese-proletaria attraverso la collaborazione parlamentare e la politica dei lavori pubblici alle cooperative; nell’Italia meridionale si corrompe il ceto dirigente e si domina la massa coi mazzieri ...
(Interruzioni del deputato Greco) Voi fascisti siete stati i maggiori artefici del fallimento di questo piano politico, poiché avete livellato nella stessa miseria l’aristocrazia operaia e i contadini poveri di tutta Italia.
Abbiamo avuto il programma che possiamo dire dal “Corriere della Sera”, giornale che rappresenta una forza non indifferente nella politica nazionale: 800.000 lettori sono anch’essi un partito.
Voci. Meno ...
Mussolini. La metà! E poi i lettori dei giornali non contano. Non hanno mai fatto una rivoluzione. I lettori dei giornali hanno regolarmente torto!
Gramsci. Il “Corriere della Sera” non vuole fare la rivoluzione.
Farinacci. Neanche “l’Unità”!
Gramsci. Il “Corriere della Sera” ha sostenuto sistematicamente tutti gli uomini politici del Mezzogiorno, da Salandra ad Orlando, a Nitti, a Amendola; di fronte alla soluzione giolittiana, oppressiva non solo di classi, ma addirittura di interi territori, come il Mezzogiorno e le isole, e perciò altrettanto pericolosa che l’attuale fascismo per la stessa unità materiale dello Stato italiano, il “Corriere della Sera” ha sostenuto sempre un’alleanza tra gli industriali del Nord e una certa vaga democrazia rurale prevalentemente meridionale sul terreno del libero scambio. L’una e l’altra soluzione tendevano essenzialmente a dare allo Stato italiano una più larga base di quella originaria, tendevano a sviluppare le “conquiste” del Risorgimento.
Che cosa oppongono i fascisti a queste soluzioni? Essi oppongono oggi la legge cosiddetta contro la massoneria; essi dicono di volere cosi conquistare lo Stato. In realtà il fascismo lotta contro la sola forza organizzata efficientemente che la borghesia avesse in Italia, per soppiantarla nella occupazione dei posti che lo Stato dà ai suoi funzionari. La “rivoluzione” fascista è solo la sostituzione di un personale amministrativo ad un altro personale.
Mussolini. Di una classe ad un’altra, come è avvenuto in Russia, come avviene normalmente in tutte le rivoluzioni, come noi faremo metodicamente! [Approvazioni].
Gramsci. È rivoluzione solo quella che si basa su una nuova classe. Il fascismo non si basa su nessuna classe che non fosse già al potere ...
Mussolini. Ma se gran parte dei capitalisti ci sono contro, ma se vi cito dei grandissimi capitalisti che ci votano contro, che sono all’opposizione: i Motta, i Conti ...
Farinacci. E sussidiano i giornali sovversivi! [Commenti].
Mussolini. L’alta banca non è fascista, voi lo sapete!
Gramsci. La realtà dunque è che la legge contro la massoneria non è prevalentemente contro la massoneria; coi massoni il fascismo arriverà facilmente ad un compromesso.
Mussolini. I fascisti hanno bruciato le logge dei massoni prima di fare la legge! Quindi non c’è bisogno di accomodamenti.
Gramsci. Verso la massoneria il fascismo applica, intensificandola, la stessa tattica che ha applicata a tutti i partiti borghesi non fascisti: in un primo tempo ha creato un nucleo fascista in questi partiti; in un secondo periodo ha cercato di esprimere dagli altri partiti le forze migliori che gli convenivano, non essendo riuscito ad ottenere il monopolio come si proponeva ...
Farinacci. E ci chiamate sciocchi?
Gramsci. Non sareste sciocchi solo se foste capaci di risolvere i problemi della situazione italiana ...
Mussolini. Li risolveremo. Ne abbiamo già risolti parecchi.
Gramsci. Il fascismo non è riuscito completamente ad attuare l’assorbimento di tutti i partiti nella sua organizzazione. Con la massoneria ha impiegato la tattica politica del noyautage, poi il sistema terroristico dell’incendio delle logge, e infine impiega oggi l’azione legislativa, per cui determinate personalità dell’alta banca e dell’alta burocrazia finiranno per l’accodarsi ai dominatori per non perdere il loro posto, ma con la massoneria il governo fascista dovrà venire ad un compromesso. Come si fa quando un nemico è forte? Prima gli si rompono le gambe, poi si fa il compromesso in condizioni di evidente superiorità.
Mussolini. Prima gli si rompono le costole, poi lo si fa prigioniero, come voi avete fatto in Russia! Voi avete fatto i vostri prigionieri e poi li tenete, e vi servono! [Commenti].
Gramsci. Far prigionieri significa appunto fare il compromesso: perciò noi diciamo che in realtà la legge è fatta specialmente contro le organizzazioni operaie. Domandiamo perché da parecchi mesi a questa parte senza che il Partito comunista sia stato dichiarato associazione a delinquere, i carabinieri arrestano i nostri compagni ogni qualvolta li trovano riuniti in numero di almeno tre ...
Mussolini. Facciamo quello che fate in Russia ...
Gramsci. In Russia ci sono delle leggi che vengono osservate: voi avete le vostre leggi ...
Mussolini. Voi fate delle retate formidabili. Fate benissimo! [Si ride].
Gramsci. In realtà l’apparecchio poliziesco dello Stato considera già il Partito comunista come un’organizzazione segreta.
Mussolini. Non è vero!
Gramsci. Intanto si arresta senza nessuna imputazione specifica chiunque sia trovato in una riunione di tre persone, soltanto perché comunista, e lo si butta in carcere.
Mussolini. Ma vengono presto scarcerati. Quanti sono in carcere? Li peschiamo semplicemente per conoscerli!
Gramsci. È una forma di persecuzione sistematica che anticipa e giustificherà l’applicazione della nuova legge. Il fascismo adotta gli stessi sistemi del governo Giolitti. Fate come facevano nel Mezzogiorno i mazzieri giolittiani che arrestavano gli elettori di opposizione ... per conoscerli.
Una voce. C’è stato un caso solo. Lei non conosce il meridione.
Gramsci. Sono meridionale!
Mussolini. A proposito di violenze elettorali io le ricordo un articolo di Bordiga che le giustifica a pieno!
Greco Paolo. Lei, onorevole Gramsci, non lo ha letto quell’articolo.
Gramsci. Non le violenze fasciste, le nostre. Noi siamo sicuri di rappresentare la maggioranza della popolazione, di rappresentare gli interessi più essenziali della maggioranza del popolo italiano; la violenza proletaria è perciò progressiva e non può essere sistematica. La vostra violenza è sistematica e sistematicamente arbitraria perché voi rappresentate una minoranza destinata a scomparire. Noi dobbiamo dire alla popolazione lavoratrice che cosa è il vostro governo, come si comporta il vostro governo, per organizzarla contro di voi, per metterla in condizioni di vincervi. È molto probabile che anche noi ci troveremo costretti ad usare gli stessi vostri sistemi, ma come transizione, saltuariamente. [Rumori, interruzioni}. Sicuro: ad adottare gli stessi vostri metodi, con la differenza che voi rappresentate la minoranza della popolazione, mentre noi rappresentiamo la maggioranza. [Interruzioni, rumori].
Farinacci. Ma allora, perchè non fate la rivoluzione? Lei è destinato a fare la fine di Bombacci! La manderanno via dal partito!
Gramsci. La borghesia italiana quando ha fatto l’unità era una minoranza della popolazione, ma siccome rappresentava gli interessi della maggioranza anche se questa non la seguiva, così ha potuto mantenersi al potere. Voi avete vinto con le armi, ma non avete nessun programma, non rappresentate niente di nuovo e di progressivo. Avete solo insegnato all’avanguardia rivoluzionaria come solo le armi, in ultima analisi, determinano il successo dei programmi e dei non programmi ... [Interruzioni, commenti}.
Presidente. Non interrompete?
Gramsci. Questa legge non varrà affatto a frenare il movimento che voi stessi preparate nel paese. Poiché la massoneria passerà in massa al Partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e contadine. Questo è il valore reale, il vero significato della legge.
Qualche fascista ricorda ancora nebulosamente gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri, di quando era rivoluzionario e socialista, e crede che una classe non possa rimanere tale permanentemente e svilupparsi fino alla conquista del potere senza che essa abbia un partito ed una organizzazione che ne riassuma la parte migliore e più cosciente. C’è qualcosa di vero in questa torbida perversione reazionaria degli insegnamenti marxisti. È certo molto difficile che una classe possa giungere alla soluzione dei suoi problemi e al raggiungimento di quei fini che sono insiti nella sua esistenza e nella forza generale della società, senza che un’avanguardia si costituisca e conduca questa classe fino al raggiungimento di tali fini. Ma non è detto che questa enunciazione sia sempre vera, nella sua meccanicità esteriore ad uso della reazione! Questa è una legge che serve per l’Italia, che dovrà essere applicata in Italia, dove la borghesia non è riuscita in nessun modo e non riuscirà mai a risolvere in primo luogo la questione dei contadini italiani, a risolvere la questione dell’Italia meridionale. Non per nulla questa legge viene presentata contemporaneamente ad alcuni progetti concernenti il risanamento del Mezzogiorno.
Una voce. Parli della massoneria.
Gramsci. Volete che io parli della massoneria. Ma nel titolo della legge non si accenna neppure alla massoneria, si parla solo delle organizzazioni in generale. In Italia il capitalismo si è potuto sviluppare in quanto lo Stato ha premuto sulle popolazioni contadine, specialmente nel Sud. Voi oggi sentite l’urgenza di tali problemi, perciò promettete un miliardo per la Sardegna, promettete lavori pubblici e centinaia di milioni a tutto il Mezzogiorno; ma per fare opera seria e concreta dovreste cominciare col restituire alla Sardegna i 100-150 milioni di imposte che ogni anno estorcete alla popolazione sarda! Dovreste restituire al Mezzogiorno le centinaia di milioni di imposte che ogni anno estorcete alla popolazione meridionale.
Mussolini. Voi non fate pagare le tasse in Russia!...
Una voce. Rubano in Russia, non pagano le tasse !
Gramsci. Non è questa la questione, egregio collega, che dovrebbe conoscere almeno le relazioni parlamentari che su tali questioni esistono nelle biblioteche. Non si tratta del meccanismo normale borghese delle imposte: si tratta del fatto che ogni anno lo Stato estorce alle regioni meridionali una somma di imposte che non restituisce in nessun modo, ne con servizi di nessun genere ...
Mussolini. Non è vero.
Gramsci. ... somme che lo Stato estorce alle popolazioni contadine meridionali per dare una base al capitalismo dell’Italia settentrionale. [Interruzioni, commenti]. Su questo terreno delle contraddizioni del sistema capitalistico italiano si formerà necessariamente, nonostante la difficoltà di costituire grandi organizzazioni, l’unione degli operai e dei contadini contro il comune nemico.
Voi fascisti, voi governo fascista, nonostante tutta la demagogia dei vostri discorsi, non avete superato questa contraddizione che era già radicale; voi l’avete anzi fatta sentire più duramente alle classi e alle masse popolari. Voi avete operato in questa situazione, per le necessità di questa situazione. Voi avete aggiunto nuove polveri a quelle già accumulate dallo sviluppo della società capitalistica e credete di sopprimere con una legge contro le organizzazioni gli effetti più micidiali della vostra attività stessa. [Interruzioni]. Questa è la questione più importante nella discussione di questa legge!
Voi potete “conquistare lo Stato”, potete modificare i codici, voi potete cercare di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma in cui sono esistite fino adesso; non potete prevalere sulle condizioni obiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fino ad oggi più diffuso nel campo dell’organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e alle masse contadine italiane da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, che il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi [interruzioni]. È molto difficile applicare ad una popolazione di 40 milioni di abitanti i sistemi di governo di Zankof . In Bulgaria vi sono pochi milioni di abitanti e tuttavia, nonostante gli aiuti dall’estero, il governo non riesce a prevalere sulla coalizione del Partito comunista e delle forze contadine rivoluzionarie, e in Italia ci sono 40 milioni di abitanti.
Mussolini. Il Partito comunista ha meno iscritti di quello che abbia il Partito fascista italiano!
Gramsci. Ma rappresenta la classe operaia.
Mussolini. Non la rappresenta?
Farinacci. La tradisce, non la rappresenta.
Gramsci. Il vostro è un consenso ottenuto col bastone.
Farinacci. Parla di Miglieli!
Gramsci. Precisamente. Il fenomeno Miglieli ha una grande importanza appunto nel senso di ciò che ho detto prima: che le masse contadine anche cattoliche si indirizzano verso la lotta rivoluzionaria. Né i giornali fascisti avrebbero protestato contro Miglieli se il fenomeno “Miglieli” non avesse questa grande importanza dell’indicare un nuovo orientamento delle forme rivoluzionarie in dipendenza della vostra pressione sulle classi lavoratrici.
Concludendo: la massoneria è la piccola bandiera che serve per far passare la mercé reazionaria antiproletaria! Non è la massoneria che vi importa? La massoneria diventerà un’ala del fascismo. La legge deve servire per gli operai e per i contadini, i quali comprenderanno ciò molto bene dall’applicazione che ne verrà fatta. A queste masse noi vogliamo dire che voi non riuscirete a soffocare le manifestazioni organizzative della loro vita di classe, perché contro di voi sta tutto lo sviluppo della società italiana.
[Interruzioni].
Presidente. Ma non interrompano? Lascino parlare. Lei, però, onorevole Gramsci, non ha parlato della legge!
Rossoni. La legge non è contro le organizzazioni!
Gramsci. Onorevole Rossoni, ella stesso è un comma della legge contro le organizzazioni. Gli operai e i contadini debbono sapere che voi non riuscirete ad impedire che il movimento rivoluzionario si rafforzi e si radicalizzi. [Interruzioni, rumori]. Perché esso solo rappresenta oggi la situazione del nostro paese ... [Interruzioni].
Presidente. Onorevole Gramsci, questo concetto lo ha ripetuto tre o quattro volte. Abbia la bontà! Non siamo dei giurati, a cui occorre ripetere molte volte le stesse cose!
Gramsci. Bisogna ripeterle, invece, bisogna che lo sentiate fino alla nausea. Il movimento rivoluzionario vincerà il fascismo. [Commenti].

Con questo discorso, pronunciato alla Camera il 16 maggio 1925, Gramsci intervenne contro il disegno di legge Mussolini-Rocco rivolto contro la massoneria e indirettamente contro i partiti antifascisti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 9

La sera ci incontravamo spesso in una cantina cosiddetta “anarchica”,per la verità di anarchico c’era solo il listino prezzi,che variava seconde le simpatie politiche del proprietario

Si discuteva animatamente del nuovo corso del partito “compromesso storico” che aveva trovato finalmente in Aldo Moro un interlocutore interessato alle tesi di Berlinguer esposte fin dal 1973

Sapevamo da sempre che nella cultura politica del PCI la storia del Partito è stata sempre letta in termini di rinnovamento nella continuità. Si tratta di un’interpretazione sostanzialmente veritiera. Da questo punto di vista, il “compromesso storico” teorizzato da Berlinguer è emblematico: nonostante le “discontinuità” (Vacca) che pure presenta, esso per certi versi è il “catalizzatore” di una tendenza strategica di lunga durata.
Essa prende avvio già da Gramsci, che coglie l’importanza per la “rivoluzione italiana” di un “blocco storico” tra la classe operaia settentrionale di orientamento socialista e masse contadine, perlopiù meridionali e cattoliche. Ma è soprattutto con Togliatti - il Togliatti del “Partito nuovo”, dell’unità nazionale antifascista e della “democrazia progressiva” - che la politica delle alleanze trova la sua massima centralità.
Fin dalla Resistenza, Togliatti individua l’importanza di un’azione unitaria tra le forze socialcomuniste e forze cattoliche, rappresentate dalla DC. All’interno di quest’ultima si individua la compresenza di un’ala conservatrice, legata alla “borghesia possidente” e alla parte più retriva della Chiesa cattolica, e un’ala democratica, più radicata nelle masse popolari. Questa concezione della DC come partito “a due facce” rimarrà una costante nella cultura politica del PCI, che si porrà l’obiettivo di favorirne l’ala progressista, evitando così che la DC scivoli a destra, trascinando con sé l’intero quadro politico. L’alleanza tra le tre grandi forze di ispirazione popolare viene così vista come una “necessità storica e politica” (1946), o addirittura come “un aspetto della via italiana al socialismo” (1960).
In altri momenti, Togliatti si rivolgerà direttamente alle masse cattoliche, con gli appelli per la pace e la salvezza del genere umano, nel tentativo di acuire la contraddizione, ormai sempre più evidente, tra il gruppo dirigente conservatore della DC e masse cattoliche potenzialmente progressive. Morto Togliatti, a seguito del Concilio Vaticano II e dell’emergere di un diffuso “dissenso” cattolico, si valuterà anche la possibilità di rompere l’unità politica dei cattolici, ma al tempo stesso si accentuerà il dialogo con la sinistra democristiana, al fine di costruire quella “unità delle forze di sinistra laiche e cattoliche”, che consenta di andare oltre il centrosinistra.

La strategia di Berlinguer nasce su questo retroterra. Ma nasce anche dalla storia italiana (e mondiale) della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70, allorché, sotto la spinta dei grandi movimenti di massa del 1968-69, matura quella grande avanzata del movimento operaio e democratico, a cui lo Stato italiano e l’alleato americano reagiscono innescando la strategia della tensione. In questo quadro, si collocano le stragi di piazza Fontana, di Gioia Tauro e della questura di Milano, il tentativo golpista di Borghese, l’attivismo del SID nello scongiurare un’evoluzione del quadro politico verso sinistra. Né è senza significato l’intesa tra DC e MSI sull’elezione di Leone a Capo dello Stato (1971). Dall’altra parte, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori e della legge sul divorzio, la nascita delle Regioni, le grandi lotte operaie. Sul piano internazionale, alla situazione di grave crisi economica si affianca l’ulteriore avanzata dei movimenti di liberazione (Vietnam) e l’emergere di governi progressisti come quello di Allende in Cile.
Quest’ultimo, che si regge su un’unità delle sinistre con appoggio esterno democristiano, è rovesciato nel settembre 1973 dal colpo di Stato di Pinochet, sostenuto dalla CIA e da multinazionali come la ITT. Berlinguer commenta i fatti cileni con tre
saggi su Rinascita, nei quali afferma che, in Italia come in Cile, non si può governare col 51%, ossia con un fronte di forze esclusivamente di sinistra; solo il consenso “della grande maggioranza della popolazione”, e dunque una “strategia delle alleanze” che sposti settori consistenti di ceto medio, è possibile scongiurare - o almeno rendere più difficile - colpi di mano autoritari e tragedie come quella cilena. Occorre quindi riprendere il processo di rinnovamento e di unità avviatosi con la Resistenza, attraverso un “compromesso storico” tra le maggiori forze popolari e il perseguimento di una “alternativa democratica” alla direzione del Paese.
Si tratta dunque della riproposizione e dell’aggiornamento della tradizionale politica unitaria del PCI, anche se Berlinguer allarga la sua visione delle alleanze fino a comprendervi i nuovi movimenti e le soggettività sociali, politiche e culturali emergenti. Nella sua proposta, dunque, c’è anche qualcosa di nuovo, che allude fin d’ora a quel “rinnovamento della politica” su cui si soffermerà negli anni ’80. Tuttavia, la DC di Fanfani è un interlocutore ben poco adatto: sulla questione del divorzio, il Segretario democristiano spinge per il referendum abrogativo, alleandosi ancora col MSI e puntando a ricostituire un fronte anticomunista. Ciò che avviene, al contrario, è l’aggregarsi di un ampio comitato di “Cattolici per il NO”, e la vittoria del NO con circa il 60% dei voti.
Due settimane dopo, la strage di piazza della Loggia: un altro segnale inequivocabile delle forze reazionarie. Berlinguer torna a chiedere un mutamento di linea e gruppo dirigente della DC, rilanciando la prospettiva di un governo “di svolta democratica”. La strategia della tensione, intanto, è in pieno sviluppo: in agosto c’è la strage dell’Italicus.
Al XIV congresso (1975), Berlinguer precisa che il compromesso storico è una strategia di ampio respiro, non riducibile alla richiesta di partecipazione comunista al governo; è “un più avanzato terreno di lotta” e “una sfida” alle altre forze democratiche. In sostanza, è una proposta volta a superare la conventio ad excludendum ai danni del PCI. Se la DC si rivela del tutto ostile alla proposta berlingueriana, non di meno lo sono le BR, che nella loro prima risoluzione strategica condannano il compromesso storico senza mezzi termini. Ma soprattutto sono ostili gli Stati Uniti, che con Kissinger ribadiscono il loro veto ad un’eventuale ingresso al governo del PCI, ormai plausibile dopo la grande avanzata elettorale delle Amministrative del ’75.
Nella DC, intanto, il gruppo dirigente è cambiato, e nuovo Segretario è Zaccagnini, più aperto ad un dialogo coi comunisti. Alla vigilia delle elezioni del 1976,Berlinguer rilancia la proposta di “un governo di unità democratica”, una sorta di Große Koalition che comprenda “tutti i partiti democratici e popolari compreso il PCI”, invitando l’elettorato ad indebolire la DC. Quest’ultima, dal canto suo, rispolvera il vecchio anticomunismo, chiamando a raccolta grande capitale e Chiesa. A pochi giorni dal voto,Berlinguer afferma che in Italia si deve costruire “il socialismo nella libertà”, ciò per cui si sente “più sicuro nel blocco occidentale e dunque nell’ambito della NATO” - un’affermazione piuttosto discutibile, che Berlinguer tempera aggiungendo che “di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero nemmeno lasciarci cominciare a farlo [il socialismo], anche nella libertà”.
Le elezioni però si concludono con “due vincitori”: il PCI, che giunge al 34.4%, e la DC, col 38.7%. Per la prima volta un comunista - Ingrao - è eletto presidente della Camera, e al PCI vanno anche le presidenze di varie commissioni parlamentari. Il governo, invece, è un monocolore democristiano guidato da Andreotti, che si regge sulle astensioni di PSI, PSDI, PRI, e su quella - determinante - del PCI: è il governo “della non sfiducia”. Comincia quindi l’esperienza della “solidarietà nazionale”. La DC, in questo modo, cerca di “guadagnar tempo concedendo il meno possibile” (Valentini). Per i comunisti, “è un accordo provvisorio suggerito dalla gravità della situazione” (Fiori).
L’Italia infatti è in balia della crisi economica, a cui il governo cerca di riparare con una serie di pesanti misure antinflazionistiche, che anche il PCI sostiene. Per Berlinguer, tuttavia, la soluzione sta in una politica di austerità, che sia al tempo stesso portatrice di “un nuovo tipo di sviluppo economico e sociale” e di un mutamento della direzione politica del Paese. Occorre - dice - “un nuovo meccanismo di sviluppo”, basato su lotta gli sprechi, programmazione economica, nuove politiche per scuola, trasporti e sanità, affinché migliori la qualità della vita e si inseriscano nella società “elementi di socialismo”. Al tema dell’
austerità, il PCI dedica anche un importante convegno, concluso da Berlinguer, che ricollega la sua proposta di politica economica ad un quadro di rapporti internazionali che non possono più basarsi su quello sfruttamento delle risorse del Terzo mondo che consente l’iper-consumo dei paesi a capitalismo avanzato. Tuttavia, il sostegno del PCI alle misure antinflazionistiche comincia a ingenerare nei settori popolari notevoli perplessità, su cui fanno leva il PSI di Craxi, la UIL, la CISL, cavalcando strumentalmente anche le critiche dei gruppi extraparlamentari.
La rottura tra questi ultimi - e il movimento del ’77 - e la “sinistra storica” è sancita drammaticamente dagli scontri che avvengono tra studenti e servizio d’ordine della CGIL, allorché Lama tenta di tenere un comizio all’interno dell’Università di Roma occupata. Il PCI, dunque, è in difficoltà, in qualche modo “accerchiato”, senza una precisa collocazione, non più all’opposizione ma neanche al governo. Tuttavia - dirà Chiaromonte - la strada era quasi obbligata, cosicché si decide di andare avanti, verificando fino in fondo le possibilità esistenti. Si chiede agli altri partiti un “accordo programmatico”, ma si ottiene solo una mozione comune. Le resistenze istituzionali e politiche al cambiamento costituiscono dunque una sorta di “muro di gomma”.
A questo punto, mentre la situazione sociale si aggrava sempre di più e monta la protesta operaia, il PCI prende le distanze dal governo, che - perso anche l’appoggio del PRI - si dimette. Seguono due mesi - i primi del “terribile 1978” - di convulse trattative, incontri, contatti. Per due volte Berlinguer e Moro si incontrano segretamente. Il Segretario del PCI chiede a Moro di fare opera di mediazione come fece per il centrosinistra, per passare “dalla democrazia difficile alla democrazia compiuta”; il leader democristiano, infine, accetta di sostenere l’ingresso del PCI nella maggioranza governativa. Si va quindi all’incontro ufficiale tra i due partiti.

Quella sera i commensali tacevano assorti in pensieri comuni

Pochi in effetti i commensali e l’oste se ne stava dietro il banco dei vini,leggendo e rileggendo i titoli dell’unità uscita in edizione straordinaria

Era il Giovedì il 16 marzo 1978, le Brigate Rosse raggiungono l’apice della loro strategia del terrore: “Portare l’attacco al cuore dello Stato”. Alle 9.02 del mattino, in via Fani all’incrocio con Via Stresa, nel quartiere Trionfale a Roma, un commando composto da circa 19 brigatisti rapisce il Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e uccide i cinque componenti della scorta: il Maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi, l’appuntato Domenico Ricci, il Brigadiere Francesco Zizzi, l’agente Raffaele Jozzino e l’agente Giuliano Rivera.
Ma cosa successe realmente quella mattina, chi e quanti erano i brigatisti che presero parte all’agguato e al rapimento? Secondo la deposizione di Valerio Morucci al processo Moro Quater questa era la logistica del commando Br: “ Io ho detto che l’auto 128 targata corpo diplomatico era guidata da Mario Moretti, che lo sbarramento all’incrocio di Via Fani è stato fatto da Barbara Balzerani, che la 132 dove è poi stato caricato l’onorevole Moro era guidata da Bruno Seghetti, che le quattro persone che hanno aperto il fuoco erano dal basso, Io, Fiore, Gallinari e Bonisoli”. Questa dunque la ricostruzione secondo la deposizione al processo Moro Quater di Valerio Morucci, unico dei Brigatisti presenti a Via Fani ad essersi dissociato.

Più in dettaglio la disposizione era dunque la seguente: alla guida della 128 bianca che ha il compito di frenare bruscamente e causare il tamponamento con la 130 Fiat su cui viaggiava Moro c’è Mario Moretti. A controllare l’incrocio c’è Barbara Balzerani armata di un mitra e di una paletta per far defluire il traffico. A sparare sono Valerio Morucci e Raffele Fiora , collocati sul lato sinistro della vettura di Moro, mentre a sparare sull’Alfetta di scorta sono invece Prospero Gallinari e Franco Bonisoli anch’essi collocati sul lato sinistro della vettura . Su Via Stresa c’è la 132 guidata da Bruno Seghetti che ha il compito di fare marcia indietro su Via Fani e caricare l’Onorevole Moro. Ma a chiudere la scena dell’agguato, quello che nella terminologia brigatista viene chiamato il” cancelletto superiore” c’è un’altra 128 messa di traverso da cui scendono altri due brigatisti. Non tutto quadro dunque con il racconto di Morucci.
ll primo ottobre del 1993 su incarico della Corte i periti balistici depositano una nuova perizia dove si afferma che, contrariamente a quanto dichiarato da Morucci, a sparare sulla 130 c’è stato almeno un altro brigatista collocato sul lato destro dell’auto dalla parte del passeggero.
Si scoprirà in seguito che del gruppo di fuoco fecero parte anche Alessio Casimirri e Alvaro Lo Jacono. Un’altra componente del commando invece è Rita Algranati, moglie di Casimirri. Del ruolo della “compagna Marzia” nella strage di via Fani hanno parlato successivamente Valerio Morucci e Adriana Faranda. “Le unità del commando - ha raccontato Faranda - erano dieci. Rita Algranati stava all’incrocio con via Trionfale per segnalare l’arrivo di Moro e della sua scorta a Moretti che era sulla 128.
Altre zone d’ombra permangono sulla dinamica dei fatti quel giorno a Via Fani. Quello stesso giorno si trovò a passare in motorino l’ingegnere Alessandro Marini che ha dichiarato che due persone a bordo di una motocicletta Honda esplosero dei colpi contro di lui. Ma le Brigate Rosse hanno sempre negato che quella moto e i suoi due occupanti facessero parte del commando.
Il 15 ottobre del 1993 un pentito della ‘Ndrangheta Saverio Morabito ha dichiarato che a Via Fani quel giorno c’era anche Antonio Mirta, altro appartenente alla mafia calabrese, e infiltrato nel commando brigatista. Sergio Flamigni, membro della Commissione Moro e autore di molti libri sull’argomento, riferisce che quando seppe della deposizione di Morabito gli vennero alla mente diversi elementi agli atti della Commissione che avvaloravano l’ipotesi della presenza di un calabrese a Via Fani. Vi era la testimonianza dell’Onorevole Benito Cazora, allora deputato della Democrazia Cristiana che riferì alla commissione: “ che venne avvicinato da un calabrese che in una certa fase ebbe a chiedergli di un rullino di foto scattate a Via Fani.
Quelle foto furono scattate immediatamente dopo la fuga del commando brigatista da un abitante in Via Fani: il carrozziere Gerardo Nucci e furono visionate dal giudice Infelisi che le ritenne molto importanti, fatto sta che questo rullino fotografico è scomparso. Forse su quel rullino potrebbe essere impressa l’immagine di questo infiltrato. Queste fotografie sono diventate uno dei tanti misteri del caso Moro.
Le ricerche per trovare Aldo Moro partono subito dopo l’eccidio, ma partono subito con il piede sbagliato . Lo stesso sedici marzo il dottor Fardello dell’Ucigos emana a mezzo telegramma l’ordine di attuare il piano Zero, elaborato per la provincia di Sassari, ma del tutto sconosciuto alle altre questure italiane. L’ordine viene revocato in meno di ventiquattro ore ma del resto la Commissione Parlamentare d’Inchiesta ha accertato che nel ’78 era ancora in vigore un sistema per la tutela dell’ordine pubblico risalente agli anni Cinquanta . Questo nonostante che il Settantasette avesse rappresentato l’apice dell’escalation terroristica con 2000 attentati, 42 omicidi 47 ferimenti, 51 sommosse nelle carceri e 559 evasioni.
Estese a tutta Italia le ricerche si concentrano soprattutto su Roma . Dal 16 marzo al 10 maggio sempre nel territorio urbano di Roma vengono impiegati 172.000 unità tra carabinieri e poliziotti che effettuano 6000 posti di blocco e 7000 perquisizioni domiciliari controllando in totale 167.000 persone e 96.000 autovetture. Qualcuno dirà che si è trattato soprattutto di operazioni di parata. La Commissione Parlamentare d’Inchiesta conclude che la punta più alta di attacco terroristico ha coinciso con la punta più bassa del funzionamento dei servizi informativi e di sicurezza.
Sergio Flamigni, membro della Commissione Moro, afferma: “Le indagini di quei 55 giorni furono contrassegnate da una serie di errori, omissioni e negligenze. Basti citarne una: la segnalazione giunta all’Ucigos al Viminale, una telefonata che comunicava i nomi dei quattro brigatisti, le auto che usavano. Bene questa segnalazione fu trasmessa dall’Ucigos alla Digos che era il corpo operativo per agire in quel momento con oltre un mese di ritardo. Quando la Digos ebbe modo di avere questa segnalazione immediatamente individuò uno dei brigatisti che tra l’altro era tenuto a presentarsi al Commissariato di Pubblica Sicurezza perché era in libertà vigilata. Immediatamente seguendo questa brigatista sdi giunge a individuare la tipografia di Via Pio Foà dove le Brigate Rosse stampavano i comunicati dei 55 giorni. Se questa comunicazione fosse stata trasmessa un mese prima, forse si poteva con ogni probabilità individuare la traccia che portava alla prigione di Moro”.

 

 

 

Dalla rete :

In data 11 gennaio, l’ambasciatore statunitense [a Londra] ci ha comunicato che il Dipartimento di Stato [Usa] ha recentemente inviato una serie di istruzioni alle sue sedi diplomatiche, chiedendo di riferire le opinioni dei governi europei sull’attuale situazione italiana. Brewster ha affermato che l’ambasciatore statunitense a Roma ha dipinto un quadro decisamente fosco. Brewster ignora i motivi della convocazione [a Washington] di Richard Gardner [ambasciatore Usa in Italia] per consultazioni. Tuttavia, alcune recenti informative diramate dallo stesso Gardner suggeriscono che il rischio di una partecipazione del Pci al governo [italiano] è ora maggiore. Inoltre, Gardner sembra particolarmente preoccupato dalla possibilità che si verifichi una grave ricaduta dell’ordine pubblico. Brewster ignora chi abbia messo in campo la circolare di Washington. A suo parere, potrebbe trattarsi di “qualcuno del National security council (Nsc)”.

Anche noi abbiamo chiesto al Dipartimento per l’Europa occidentale [del ministero degli Esteri britannico] una valutazione sull’Italia. Tuttavia, secondo Brewster, si tratta di una stima meno allarmistica di quella statunitense. Brewster ha apprezzato il commento apparso sul Financial Times dell’11 gennaio, sebbene non concordi con la tesi che l’attuale crisi di governo sia stata aperta intenzionalmente dal Pci. Nel descrivere le nostre opinioni sull’origine della crisi e sui suoi possibili sviluppi, egli ha trasmesso a Washington una copia delle nostre analisi [v. documento KG E-5, di seguito].

Abbiamo letto il tuo telegramma n. 131. […] Attendiamo ora i commenti del nostro ambasciatore a Roma [Alan Campbell].

DOCUMENTO KG E-10

DA PETER JAY (AMBASCIATORE BRITANNICO A WASHINGTON) ALL’FCO (LONDRA), TITOLO: “TELEGRAMMA N. 86” (TELEGRAMMA N. 140), 12 GENNAIO 1978, ORE 22.10, CONFIDENZIALE.

Ho trasmesso a Bob Hunter (Nsc) le spiegazioni contenute nel paragrafo 1 del tuo telegramma [v. KG E-9]. […] Hunter ha affermato che la decisione di emettere il comunicato statunitense era da intendersi come un “ultimatum” [all’Italia]. Tuttavia, considerata l’attenzione sollevata dalla questione dell’atteggiamento americano, si è deciso di emettere il comunicato attribuendo grande importanza al tema della non ingerenza negli affari interni dell’Italia. […].

*

DOCUMENTO KG E-11

DA PETER JAY (AMBASCIATORE BRITANNICO A WASHINGTON) ALL’FCO (LONDRA), TITOLO: “IL MIO TELEGRAMMA N. 140: ITALIA” (TELEGRAMMA N. 141), 12 GENNAIO 1978, ORE 22.55, CONFIDENZIALE.

Il presidente Carter non ha (lo ripeto: non ha) fatto cenno alla situazione italiana durante la sua conferenza stampa. Nelle ore precedenti, il portavoce del Dipartimento di Stato aveva rilasciato la seguente dichiarazione: “La visita a Washington dell’ambasciatore statunitense in Italia, Richard Gardner, ha fornito l’occasione per un giro d’orizzonte sulle nostre politiche assieme ai nostri funzionari. Non vi è alcun cambiamento nell’atteggiamento dell’amministrazione nei confronti dei partiti comunisti dell’Europa occidentale, compreso il Pci, sebbene i recenti sviluppi in Italia abbiano aumentato il livello delle nostre preoccupazioni. […] I nostri alleati nell’Europa occidentale sono paesi sovrani e, giustamente, la decisione su come devono essere governati spetta soltanto ai loro cittadini. Al contempo, tuttavia, noi abbiamo l’obbligo di esprimere chiaramente le nostre opinioni ai nostri amici e alleati. […] La nostra posizione è chiara: noi non favoriamo la partecipazione dei comunisti ai governi dell’Europa occidentale e vorremmo vedere ridotta la loro influenza in questi paesi”. […].

*

5. Al Dipartimento di Stato non ci si illude sull’efficacia della dichiarazione [del 12 gennaio]. Sospetto che molti veterani la considerino un gesto inutile oppure un atto di disperazione (o entrambi) e, in ogni caso, inadeguata a imprimere un cambiamento reale al corso degli eventi in Italia. La scorsa settimana, quando John Robinson ha sollevato la questione con George Vest, questi si è scusato per il modo in cui l’intera faccenda è stata gestita: sembrava  decisamente scontento della dichiarazione. Ma il problema rimane. Che cosa può effettivamente fare l’amministrazione Carter per aiutare Andreotti? Molto poco. […].

6. Almeno per ora, sembra sia da escludere anche un’operazione segreta [striscia nera a nascondere due righe del testo in inglese]. Da un punto di vista politico più generale, le difficoltà associate ad azioni di questo tipo non hanno bisogno di essere enfatizzate. Inoltre, qualsiasi proposta di operazione segreta dovrebbe essere esaminata da almeno otto commissioni del Congresso degli Stati Uniti. Di conseguenza, la possibilità di mantenerla segreta sarebbe minima. Se si verificasse una fuga di notizie, anche in maniera confusa, le reazioni sarebbero feroci e dannose, sia qui sia in Italia. Infine, da nessuna fonte si evincono pressioni sull’amministrazione Carter perché ci si muova in tale direzione. Al contrario, qui ci si rende ben conto – anche tra i “falchi” – che attività di questo genere in un paese membro della Nato producono effetti scarsi, e che possono ritorcersi contro i loro artefici.

7. Malgrado le difficoltà, nei mesi avvenire l’amministrazione Carter continuerà certamente a cercare il modo di far pesare in maniera attiva l’influenza americana. Ma le buone idee scarseggiano. Se la situazione italiana dovesse ulteriormente deteriorarsi, gli americani potrebbero essere costretti a divulgare nuove, preoccupate dichiarazioni nonché potenzialmente dannose. E’ improbabile comunque che tali prese di posizione, anche se redatte con parole ferme, siano in grado di soddisfare la “lobby italiana” al Congresso degli Stati Uniti e la destra politica americana. Ma le critiche provenienti da questi ambienti finiranno inevitabilmente per affrontare la seguente domanda: “Avete di meglio da suggerire?”. Al momento, la risposta può essere soltanto una: “No”.

 

Dal blog di Giuseppe Casarrubea

Capitolo 10

Nelle elezioni anticipate del giugno 1979[1] il Pci perse il 4% dalle precedenti elezioni[2], mentre il peso politico della Dc rimase invariato. Il Psi, che aveva vissuto gli ultimi anni totalmente schiacciato tra la Dc e il Pci, con il cambiamento della leadership interna finita nelle mani di Bettino Craxi e con il mutamento della situazione politica, pur rimanendo stabile da un punto di vista elettorale, cominciò sempre di più a riprendere spazio, puntando ad essere l’ago della bilancia tra i due principali partiti[3].
Il comportamento “corsaro” del Psi si manifestò anche dopo le elezioni regionali dell’8 giugno 1980, quando il Partito di Craxi mise in difficoltà il Pci, sceso in quelle elezioni al 31,5%[4], non riconfermando con esso l’alleanza in tutte le giunte costituite nel biennio 1975-76. La Dc, risalita al 36,8%, pur di riconquistare il maggior numero possibile delle amministrazioni perse negli anni precedenti, in queste era solita offrire la guida al Psi, ovviamente con l’obbligo per il Partito di Craxi di cambiare la maggioranza uscente. Dopo avere a lungo oscillato, governando a livello locale sia con la Dc che con il Pci, il Partito di Craxi formulò stabilmente, a livello nazionale, un’alleanza di governo con la Dc, facendo pesare sempre di più, nelle richieste di posti di potere, il suo ruolo di partito di confine. Anche i piccoli partiti, Pli, Pri e Psdi rientrarono nell’alleanza che fu detta, per il numero dei partiti che la componevano, “pentapartito”. Il pentapartito, a differenza del centro-sinistra, non si poneva l’obbiettivo di assumere un profilo riformatore, ma si caratterizzò semplicemente per la tendenza innata alla conservazione del potere e alla spartizione dello stesso, celando quest’intenzione dietro una parola molto in voga in quel periodo: governabilità. Il Pci si ritrovò di nuovo all’opposizione e soprattutto completamente isolato.
La situazione si complicò ulteriormente con la rottura definitiva del Pci con l’Urss che avvenne all’inizio degli anni ’80. Dopo avere duramente condannato l’invasione dell’Afghanistan, ribadendo la volontà del Partito di non chiedere più l’uscita dalla Nato, fu il colpo di Stato in Polonia a dire la parola fine nel rapporto tra il Pci e quello che poteva, a quel punto, essere considerato ex Stato guida. Enrico Berlinguer, con un’intervista televisiva, dichiarò conclusa la “spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre”. La dichiarazione, che destò grosso clamore, provocò un’importante frattura all’interno del Partito, con l’ala filosovietica, diretta da Armando Cossutta, che insorse e cominciò una battaglia interna che, raccogliendo consensi nella base nostalgica, continuò per motivazioni diverse, fino alla fine del Pci.
Berlinguer, per uscire dall’isolamento in cui era caduto il Pci, provò a recuperare in Italia quel ruolo di protagonista dell’opposizione sociale che si era ovviamente un po’ appannato negli anni della solidarietà nazionale. Il Partito provò a ricostruire delle alleanze nella base del Paese, cercando convergenze con le nuove forze sociali che chiedevano il rinnovamento della società italiana e riprendendo i rapporti con quello che era il tradizionale riferimento sociale del Pci: la classe operaia. In quest’ottica vanno lette le battaglie contro l’installazione degli Euromissili, per la pace e, soprattutto, nella vertenza degli operai della Fiat del 1980. Il Pci in quella lotta arrivò addirittura a scavalcare il ruolo della Cgil e la sconfitta finale e quella riportata anni dopo nel referendum, che era stato fortemente voluto da Berlinguer, per difendere la “scala mobile” cancellata da Craxi, segnarono in maniera indelebile il Partito.

Il Pci cominciò ad accorgersi che la società stava mutando e che il Partito, così com’era, cominciava ad essere uno strumento inadatto per fronteggiare e governare il cambiamento. Gli iscritti cominciarono a calare con la stessa costanza con la quale erano aumentati fino al 1976 e nel Partito qualcuno cominciò ad immaginare che si fosse imboccata la via del declino.

Certamente un momento di ripensamento e di necessità di un radicale cambiamento

Un momento di apprensione e di continui dibattiti all’interno sia della redazione del piccolo giornale aziendale che nella sezione di partito

Un momento delicato anche per i 20000 lavoratori dell’alfa-sud,compreso l’indotto

Si cominciava a vociferare il passaggio definitivo,da sempre sospettato dell’azienda in mani private

Ovviamente si parlava della Fiat come nuovo padrone

Un momento di vuoto di prospettive ma soprattutto di progetti alternativi

Era necessario rinsaldare i rapporti con il mondo del lavoro

Berlinguer incontra una folta rappresentanza di lavoratori dello stabilimento

Il segretario con loro trascorre quello che sarà un lungo pomeriggio, mentre sul suo tavolo si affollano centinaia di fogli che iniziano tutti con la formula “Compagno Berlinguer voglio chiederti...” prestampata dal partito, a cui loro hanno aggiunto domande, richieste, riflessioni. I lavoratori si alzano in piedi, ognuno di loro si introduce dicendo nome e reparto di appartenenza (presse, verniciature, ecc.), leggono le loro domande, inciampano sulla pronuncia di Afghanistan, ma nei loro occhi c’è la gratitudine per quell’uomo minuto che con pazienza e interesse prende appunti e ragiona con loro.

Berlinguer risponde con la sua voce ferma e precisa. Spiega con calma a quei compagni quanto profondamente sia da rinnovare la società italiana per sradicare la disoccupazione e soprattuto le sue cause. “Perché noi vogliamo una società che rispetti tutte le libertà. Meno una. Quella di sfruttare il lavoro di altri esseri umani. Perché questa libertà tutte le altre distrugge e rende vane”.

 

Cesare Annibaldi annuncia che l’esigenza, per la FIAT, sarebbe quella di licenziare 24.000 dipendenti (di cui 2.000 impiegati). Comunque è possibile evitarlo ponendo in Cassa integrazione a zero ore, per 18 mesi dal 1° Ottobre, questi lavoratori.
La FLM dirama una nota in cui ribadisce di essere contraria “in queste condizioni” alla mobilità esterna, perché essa significherebbe solo una mascheratura dei licenziamenti. E’ invece favorevole – conferma – a mobilità interna, blocco del turn over, prepensionamenti, corsi di formazione per un riequilibrio anche qualitativo degli organici.
Viene giudicata inopportuna la dichiarazione pubblica di Cesare Del Piano (segretario confederale CISL) che si è dichiarato favorevole alla riduzione dell’orario di lavoro.
Benvenuto, segretario generale della UIL, si dichiara favorevole anche alla mobilità interaziendale “purché da posto a posto”.
A Cassino, per la questione dei ritmi, sciopero alla Verniciatura. La FIAT mette “in libertà” 3.200 operai.
Comune, provincia e regione incontrano la delegazione FIAT e dichiarano la propria soddisfazione nel sentire che l’azienda vuole mantenere/recuperare un ruolo di primo piano tra i produttori mondiali. Lamentano che non vengano fornite indicazioni sulla strategia e sui programmi del gruppo

L’8 maggio 1980, due giorni dopo l’insediamento di Vittorio Merloni alla guida di Confindustria, la FIAT, in crisi, propone la cassa integrazione per 78.000 operai per 8 giorni

Il 31 luglio Umberto Agnelli si dimette da co-amministratore delegato della Fiat. Amministratore delegato unico resta Cesare Romiti. Romiti diventa il leader della linea dura antisindacale, già iniziata nell’estate 1979 e culminata il 9 ottobre dello stesso anno, quando erano stati licenziati 61 operai Fiat accusati spesso ingiustamente, come dimostrato da appena quattro condanne, di violenze in fabbrica e sospettati di terrorismo.

Sul piano nazionale c’è a vari livelli la convinzione che il processo produttivo in particolare le partecipazioni statali,che pur erano state il volano del miracolo economico italiano,avevano fatto il suo tempo che si doveva cambiare

Capitolo 11

Il 2 agosto alle 10:25, nella sala d’aspetto di 2° classe della Stazione di Bologna Centrale, affollata di turisti e persone in partenza o di ritorno dalle vacanze, un ordigno a tempo, contenuto in una valigia abbandonata, esplode uccidendo ottantacinque persone e ferendone oltre duecento. La città reagì con orgoglio e prontezza: molti cittadini prestarono i primi soccorsi alle vittime e contribuirono ad estrarre le persone sotterrate dalle macerie. Non essendo sufficienti le ambulanze per trasportare i feriti agli ospedali cittadini, vennero impiegati anche autobus come il 37, auto private e taxi. Per curare i feriti medici e infermieri tornarono dalle ferie e furono riaperti i reparti chiusi per l’estate.

La bomba era composta da 23 kg di esplosivo, una miscela di 5 kg di tritolo e T4 detta “Compound B”, potenziata da 18 kg di gelatinato (nitroglicerina ad uso civile). L’esplosivo, di fabbricazione militare, era posto in una valigetta sistemata a circa 50 centimetri d’altezza su di un tavolino portabagagli sotto il muro portante dell’ala ovest della stazione, allo scopo di aumentarne l’effetto.[1] La detonazione si udì nel raggio di molti chilometri e causò il crollo di un’ala intera della stazione investendo in pieno il treno Ancona-Chiasso in sosta al primo binario e il parcheggio dei taxi antistante.

 

Il governo, presieduto da Francesco Cossiga, e le forze di polizia attribuirono lo scoppio a cause fortuite, ovvero all’esplosione di una caldaia nel sotterraneo della stazione. Non appena apparvero più chiare le dinamiche e fu palese una matrice terrorista, attribuirono la responsabilità della strage al terrorismo nero.

Già il 26 agosto 1980 la Procura della Repubblica di Bologna emise ventotto ordini di cattura nei confronti di militanti di estrema destra dei Nuclei Armati Rivoluzionari: Roberto Fiore e Massimo Morsello (futuri fondatori di Forza Nuova), Gabriele Adinolfi, Francesca Mambro, Elio Giallombardo, Amedeo De Francisci, Massimiliano Fachini, Roberto Rinani, Giuseppe Valerio Fioravanti, Claudio Mutti, Mario Corsi, Paolo Pizzonia, Ulderico Sica, Francesco Bianco, Alessandro Pucci, Marcello Iannilli, Paolo Signorelli, PierLuigi Scarano, Francesco Furlotti, Aldo Semerari, Guido Zappavigna, GianLuigi Napoli, Fabio De Felice, Maurizio Neri. Vengono subito interrogati a Ferrara, Roma, Padova e Parma. Tutti saranno scarcerati nel 1981.

Vi furono svariati episodi di depistaggio, organizzati per far terminare le indagini, dei quali il più grave è quello ordito da parte di alcuni vertici dei servizi segreti del SISMI, tra i quali Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, che fecero porre in un treno a Bologna, da un sottufficiale dei carabinieri, una valigia piena di esplosivo, dello stesso tipo che fece esplodere la stazione, contenente oggetti personali di due estremisti di destra, un francese e un tedesco. Musumeci produsse anche un dossier fasullo, denominato “Terrore sui treni”, in cui riportava gli intenti stragisti dei due terroristi internazionali in relazione con altri esponenti dell’eversione neofascista, tutti legati allo spontaneismo armato, senza legami politici, quindi autori e allo stesso tempo mandanti della strage.

LE IPOTESI AMERICANE NEI DOCUMENTI DELL’EPOCA

Gli Usa dissero: a Bologna strage di destra
Le prime analisi sull’attentato a firma dell’ambasciatore Usa Gardner “Sono stati i neofascisti, BR e Prima Linea non usano esplosivi così”

CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Paura per la presenza di vittime americane, convinzione della pista neofascista e timori per la tenuta del governo Cossiga bersagliato dagli attacchi di Berlinguer e indebolito dalla sfiducia di Craxi: così gli Stati Uniti vivono la strage di Bologna, secondo quanto si evince dalle 74 pagine dattiloscritte di 32 documenti del Dipartimento di Stato, compresi fra il 2 agosto e il 19 settembre 1980, dei quali «La Stampa» ha ottenuto, dopo due anni e due settimane, la declassificazione nel rispetto delle norme sul «Freedom of Information Act».

Dopo due ore esatte, un messaggio del Consolato Usa di Firenze firmato «Johnston» informa il Segretario di Stato, Ed Muskie, dell’avvenuta «esplosione alla centrale ferroviaria», precisando: «Non abbiamo informazioni di vittime americane». A Washington però il timore di aver avuto morti c’è e il Consolato, alle 15,25, scrive ancora per fugarlo: «Abbiamo parlato con la questura di Bologna, ci sono solo dieci stranieri feriti, sono tutti tedeschi». Solo 24 ore dopo i diplomatici Usa scoprono che fra i feriti ci sono i connazionali William Stephen Davis e Jeffrey Clay Davis, ma già il 4 agosto l’allarme a Washington rientra, lasciando il posto alle prime analisi sull’attentato.

Dalla sede dell’ambasciata Usa in via Veneto è l’ambasciatore Richard Gardner che scrive a Muskie un telegramma di cinque pagine nel quale indica la possibile matrice: «In Italia un attentato dinamitardo terrorista suggerisce una responsabilità di estrema destra».

Gli effetti politici

Due i motivi - «analogie e modus operandi» - perché «per i due soli disastri simili, nel 1969 l’attentato a una banca milanese che uccise 16 persone e nel 1974 l’esplosione del treno Italicus che fece 12 vittime, sono stati identificati responsabili neofascisti». Poi Gardner aggiunge: «Da quanto abbiamo appreso su Brigate Rosse e Prima Linea, queste evitano l’uso di potenti esplosivi perché non li immagazzinano né si addestrano al loro utilizzo». Da qui l’ipotesi avanzata a Washington: «Siamo inclini ad accettare l’ipotesi neofascista». Con l’unico dubbio che «potrebbe essere un attentato orchestrato dall’estero e il leader del Psdi Pietro Longo ipotizza un responsabilità africana, presumibilmente libica». Ciò che più preme spiegare a Gardner, però, sono gli effetti politici della strage di Bologna: «Il presidente Pertini, il primo ministro Cossiga, il leader del Psi Craxi e il ministro degli Interni Rognoni sono fra i primi a essere andati a Bologna, ma fonti del Consolato a Firenze affermano che alcuni dimostranti in loco hanno avuto forti toni contro il governo, urlando contro la sede della Dc e insultando Craxi».

Il telegramma di Carter

Si tratta di proteste che preoccupano Via Veneto, perché «le indagini saranno lente e difficili, mentre i comunisti hanno messo a segno punti preziosi sulla propaganda, enfatizzando la presenza di elementi fascisti nel terrorismo italiano e mettendo sotto pressione il governo». Il timore è che traballi l’esecutivo di Cossiga. «Si aggiunge un’ulteriore preoccupazione a un esecutivo segnato dai problemi» e per il premier «sarà difficile far andar via il sentimento di disperazione e rabbia con cui l’Italia ha reagito alla strage». E’ dopo aver letto l’analisi di Gardner che il Segretario di Stato Muskie scrive il telegramma del presidente Jimmy Carter a Sandro Pertini. Arriva a Roma alle 23,25 del 4 agosto e recita: «A nome del popolo americano Le comunico lo shock e l’orrore che proviamo di fronte alla strage della stazione. Siamo al fianco di tutti gli italiani». L’intento è di rafforzare le istituzioni repubblicane. Ma i timori di svolte pro-Pci restano.
L’indomani, alle 17,09, Gardner torna a scrivere a Washington per avvertire sulle «tensioni politiche in crescendo in Italia». Il discorso di Cossiga al Senato, con l’appello alla coesione nazionale e le accuse ai neofascisti, lasciano dubbioso l’ambasciatore, secondo il quale ciò che più conta è che «il segretario del Pci Berlinguer ha lungamente attaccato il governo accusando Cossiga di lasciare l’Italia senza timone di fronte a terrorismo e crisi economica». Il premier, d’altra parte, è «ovviamente stanco» e «non presenta nuove prove sulla matrice di destra», mostrando così il fianco all’opposizione. «Ciò che Cossiga fa - osserva Gardner - è appellarsi all’unità nazionale, ma se intendeva ammorbidire il Pci non c’è riuscito, perché Berlinguer ha firmato un raro articolo sulla prima pagina dell’Unità, accusando i vertici del governo di inettitudine, favorendo così iniziative sovversive».

Eventuali mandanti della strage non sono mai stati scoperti.

p.s

loggia P2

È molto probabile che la Loggia P2, che si è delineata come un vero e proprio servizio segreto atlantico, fosse stata trasformata anche in una sede di raccordo e di incontro tra tutte le strutture parallele che gestivano il potere reale in Italia.

Nelle liste della P2, rinvenute il 17 marzo 1981 nella villa di Gelli di Castiglion Fibocchi, risultavano iscritti numerosi nomi di dirigenti dei servizi segreti:Miceli, Maletti, La Bruna, D’Amato, Fanelli, Viezzer.
Vi risultavano anche Giuseppe Santovito, Grassini e Walter Pelosi, capo del CESIS dal maggio 1978.
C’erano i nomi di numerosi altri dirigenti, tra cui Musumeci, capo della segreteria di Santovito, Sergio Di Donato e Salacone, dell’ufficio amministrativo…

Nelle liste della P2 c’era anche una nutrita schiera di funzionari del SISDE.
Per molti iscritti la data di iniziazione era immediatamente precedente o successiva al passaggio nei servizi segreti.
Nel 1962-64 il generale De Lorenzo e il SIFAR predisposero principalmente un’attività di schedatura dei cittadini e di preparazione di un possibile colpo di Stato.
Negli anni settanta i dirigenti del SID (mutamento del nome del servizio segreto da SIFAR a SID, dopo lo scandalo del “piano Solo”) esplicarono soprattutto azioni per proteggere eversori di destra e sospetti autori di stragi.
Gli ufficiali del SISMI, che ne costituirono le strutture occulte, nel 1978-81 spaziarono dalla trattativa trilaterale con Br e camorra per la liberazione di Cirillo, al depistaggio dei giudici impegnati nelle indagini sulla strage del 2 agosto alla stazione di Bologna, dalla operazione “Billygate” al peculato, dalle macchinazioni nei confronti dei collaboratori del capo dello Stato alla diffusione di notizie calunniose attraverso la stampa, da loro stessi finanziata.
A somiglianza della P2, della quale per altro la struttura era una articolazione, il SUPERSISMI svolgeva un amplissimo ventaglio di attività, tutte direttamente o indirettamente finalizzate a intervenire nella sfera politica, il che era, con tutta evidenza, incompatibile con le finalità d’istituto.

Quando Gelli nel marzo del 1965 s’iscrisse alla massoneria nella loggia del Grande Oriente “Romagnosi” di Roma, aveva già delle buone credenziali come fascista della repubblica di Salò.
Contava sull’amicizia con Giulio Andreotti e referenze con gli ambienti del Vaticano, una lista di cinquanta nuovi iscritti molto qualificati.
Aveva legami con molti ufficiali dei servizi segreti, in particolare col generale Giovanni De Lorenzo e con il colonnello dell’Arma dei Carabinieri Giovanni Allavena, reduci dalle trame del “piano Solo”, (che sarebbe scattato se il governo di centrosinistra avesse adottato un programma autenticamente progressista), e dallo scandalo delle schedature del SIFAR, il nostro servizio segreto che in pochi anni aveva raccolto 157 mila dossier, per usarli come arma di ricatto su politici, militari, giornalisti, preti, privati cittadini, uomini di cultura.
Questi dossier passarono molto probabilmente nelle mani di Gelli, che ne fece uno degli strumenti del suo stesso potere.
Allo stesso De Lorenzo, capo del Sifar, venne dato il compito di organizzare l’esercito clandestino di Gladio.
Nel 1962, quando Antonio Segni salì al Quirinale, De Lorenzo era impegnato con gli uomini della CIA di Roma a creare “squadre d’azione per compiere attentati contro le sedi della Democrazia cristiana e di alcuni quotidiani del Nord, da attribuirsi alle sinistre; sono necessari altresì gruppi di pressione che chiedano, a fronte degli attentati, misure di emergenza al governo e al capo dello Stato.”
(Il brano è tratto da un memorandum dei servizi segreti americani ratificato da De Lorenzo).

La carriera di Gelli in Massoneria fu velocissima.
Nel dicembre del 1966, poco più di un anno dopo la sua iscrizione alla massoneria, venne nominato capo della loggia HOD, nota come P2, la più importante e misteriosa di tutto il Grande Oriente.

La Commissione parlamentare d’inchiesta ha sottolineato che il ruolo di Gelli crebbe di pari passo col defilarsi di Frank Gigliotti ormai anziano.
Gigliotti, uomo della CIA, era un feroce anticomunista, amico di molti mafiosi siciliani, ex agente della OSS, la rete di spionaggio degli Stati Uniti in Italia durante la guerra.
Dalle logge massoniche americane gli era stato affidato il compito di rimettere insieme quello che rimaneva della massoneria conservatrice di piazza del Gesù, con il Grande Oriente di palazzo Giustiniani.
Gigliotti rimise in circolo logge come la “Alam” del principe Giovanni Alliata di Montereale, protagonista di almeno un paio di mancati golpe e amico di boss mafiosi e finanzieri alla Michele Sindona.

Gelli stesso rivendicherà sempre con orgoglio i legami con la destra americana più reazionaria.

I legami tra la CIA e la P2 sono stati confermati in un’intervista al TG1 nel 1990, dalle rivelazioni di Richard Brenneke e Razin, ex agenti della CIA, sui finanziamenti dei servizi segreti americani alla P2.
Presero, quindi, l’avvio le inchieste che portarono a scoprire il ruolo della CCI, la “Kriminal Bank”, usata dalla CIA e dai trafficanti internazionali di valuta e di armi.
I due agenti parlarono anche di qualcosa molto simile a Gladio.
Razin era stato addirittura supervisore della Gladio europea.
Questa intervista scatenerà una delle prime esternazioni del presidente Cossiga e porterà alla rimozione del direttore del telegiornale, Nuccio Fava, e alla esautorazione del giornalista Ennio Remondino, autore dell’inchiesta.
Per Cossiga, allora capo dello Stato , era inammissibile che i servizi di sicurezza di un paese amico venissero attaccati in quel modo.
Bisognava prendere provvedimenti contro dirigenti e funzionari Rai.
Con altrettanta foga reagì qualche mese dopo, dando del “giudice ragazzino” a Casson che voleva interrogarlo su Gladio.

Nella sua testimonianza resa ai giudici di Bologna, che indagavano sul coinvolgimento del capo della P2 nella strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, Tommaso Masci, primo portiere nella seconda metà degli anni 70 dell’albergo romano Excelsior, di cui Gelli era in quel periodo cliente fisso, tracciava una descrizione efficace del formicolio dei potenti intorno a Licio Gelli.
Tra i visitatori di Gelli c’erano politici, militari, giornalisti, alti funzionari dello Stato, banchieri. Tra coloro che lo frequentavano, c’erano Andreotti, Cossiga, Craxi, Fanfani, solo per fare i nomi più noti.
Tra i visitatori c’era anche il bombarolo Paolo Aleandri, il terrorista di destra a cui Gelli aveva affidato il compito di mantenere i contatti con Filippo de Jorio, consigliere politico dell’onorevole Andreotti, che era latitante per il golpe Borghese del 1970.
Lo stesso Aleandri incontrò nella stanza di Gelli il generale Vito Miceli, capo del SID, cioè l’uomo che avrebbe dovuto arrestarlo.
Verso la fine del 1979 Alfredo De Felice, della cerchia dei neofascisti, assistette ad un incontro tra Gelli e il ministro del Commercio Estero Gaetano Stammati, che doveva sottoporre a Gelli le bozze di un decreto economico del Governo.
Il deputato democristiano si iscrisse alla loggia P2 nel 1977 e, poco dopo, diventò ministro del Commercio estero del governo Andreotti.
Dopo le elezioni del giugno 1979, l’incarico di formare il nuovo governo fu dato a Cossiga, che affidò il ministero del Commercio Estero a Stammati, quando, precedentemente, lo aveva promesso al liberale Altissimo.
Alle inferocite rimostranze dei liberali, Cossiga rispose: “Non ne ho potuto fare a meno; ho ricevuto tante pressioni…”.
Nello stesso tempo Gelli, nella sua stanza all’Excelsior, si vantava con gli amici di avere imposto Stammati.

L’attività della P2 negli anni ‘70 era frenetica.
C’era la pratica costante della raccomandazione e c’erano gli affari, e gli affari intrecciati col potere che lo alimentavano.
Degli affari citiamo i più noti: l’ Eni-Petronim, il banco Ambrosiano, il crak della Banca Privata di Sindona, la scalata al “Corriere della Sera”, tutti collegati a scandali e cadaveri come quello di Calvi, penzolante sotto un ponte di Londra o quello di Ambrosoli, liquidatore della banca Privata di Michele Sindona.

A volte gli uomini della P2 si servirono delle organizzazioni criminali: mafia, camorra, ‘ndrangheta.
Collegamenti accertati dalle inchieste giudiziarie sul finto rapimento di Sindona, sul caso Cirillo, sulla strage del rapido 904, sull’omicidio di Roberto Calvi.
I nomi degli iscritti alla P2 ritornano con ossessiva puntualità in tutte le indagini sui misteri d’Italia: la strage sul treno Italicus, il caso Moro, la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, il delitto Mattarella, il traffico di armi e droga, solo per citarne alcuni.

Il treno “Italicus”, linea ferroviaria Firenze-Bologna, il 4 agosto 1974 verso sera tardi, venne squassato dalla forte esplosione di una bomba ad altissimo potenziale:12 persone morte e 105 feriti.
Apparve certo, fin da subito, che la strage era opera del neonazismo. Le indagini si diressero sul gruppo di neofascisti di Arezzo e precisamente su Franci, Malentacci e Tuti, che avevano legami anche con la P2. I tre sono rinviati a giudizio e poi assolti. Il giudice istruttore di Bologna Angelo Vella, affiliato alla massoneria locale, non coinvolge nessun piduista.

Il neofascismo terrorista era coinvolto nella grande operazione presidenzialista, che rappresentava e rappresenterà lo scopo principale a cui tende, trasversalmente a tutti i partiti, la politica italiana.

Luciano Violante, partendo dal golpe presidenzialista, era arrivato ai gruppi terroristici di estrema destra. “Sussistono prove - scrive - di una corrispondenza tra Edgardo Sogno e l’avvocato Antonio Fante di Padova…Che dagli elementi in atti appare che tale corrispondenza abbia ad oggetto la costituzione di una organizzazione intesa a raggruppare tutti i gruppi di estrema destra, tra i quali anche Ordine Nuovo, in epoca successiva al decreto di scioglimento di questo gruppo.”
Spiega, inoltre, nella sua requisitoria contro Sogno e Cavallo, Violante: “..Va considerato che l’allertamento disposto venne a conoscenza di quei settori militari che molteplici fonti di prova indicano come interessati all’iniziativa eversiva, disincentivando per il momento la realizzazione del piano…”

I giudici milanesi Turone e Colombo arrivarono alla scoperta degli archivi di Gelli indagando sul finto rapimento e il soggiorno in Sicilia del bancarottiere Michele Sindona.
I giudici milanesi, come quelli di Palmi, che indagavano sulle nuove logge coperte, scoprirono che attraverso la P2 passavano molti dei misteri e degli scandali italiani di quegli anni, e furono costretti a suddividere in capitoli il materiale raccolto:
· la P2 e lo scandalo Eni;
· la P2 e il Banco Ambrosiano;
· la P2 e lo scandalo dei petroli;
· la P2 e la magistratura;
· la P2 e la Rizzoli;
· la P2 e i segreti di Stato;
· la P2 e i finanziamenti all’eversione nera;
· la P2 e le stragi;
· la P2 e il sequestro Moro;
· la P2 e il caso Pecorelli.

Un altro gigantesco capitolo fu aperto dall’inchiesta del giudice Carlo Palermo sul traffico di armi, che coinvolgeva molti piduisti e da cui trasparivano forti legami con la criminalità organizzata e col traffico di droga………….
Un intreccio solido quello che traspare dalle inchieste giudiziarie su mafia e massoneria.

Prima che i giudici di Palmi riaprissero il capitolo oscuro dei rapporti tra massoneria, traffici di armi, affari sporchi e criminalità, altre logge coperte erano finite in inchieste della magistratura.
A Palermo il giudice Falcone, prima di essere costretto a trasferirsi a Roma, si era a lungo occupato di massoneria. Aveva scoperto la loggia di via Roma 391, dove politici locali e funzionari pubblici venivano iniziati, insieme a mafiosi del calibro di Michele Greco e Giovanni Cascio, del quale molti anni dopo verrà intercettata una telefonata in cui si parlava in termini amichevoli di Gelli.
Gran maestro della loggia di via Roma era Pietro Calacione, direttore sanitario dell’ospedale Civico di Palermo e il Civico, forse non per una semplice coincidenza, era uno dei feudi elettorali dell’onorevole Salvo Lima.
Falcone si era occupato di un’altra inchiesta sull’intreccio tra mafia e massoneria e le indagini dei carabinieri si erano svolte in tre direttrici: logge massoniche, rilevamento di società sull’orlo del fallimento, contatti con i politici.
Le indagini erano arrivate fino a Roma e a Milano.
Pino Mandalari, capo di alcune logge, poi condannato a due anni di carcere per riciclaggio di denaro sporco, in una telefonata intercettata, si vantava di potere arrivare fino alla segreteria di Bettino Craxi; in altre telefonate si parlava del generale Cappuzzo, siciliano già iscritto alla P2, di Salvo Lima, di alcuni sottosegretari di governo.

Inesplorata resta la questione delle coperture assicurate a Gelli dai politici, a cominciare da Andreotti, suo grande amico, poi da Cossiga, da Fanfani, da Craxi, da Forlani e da molti altri.
Fu scoperto che dietro la sigla del circolo Scontrino di Trapani si celavano ben sei logge massoniche e una superloggia coperta( loggia C), con iscritti deputati regionali, alti funzionari e mafiosi.
La loggia C saltò fuori anche nelle indagini del giudice Augusto Lama di Massa Carrara, sui traffici di armi di Aldo Anghessa, un collaboratore dei servizi segreti italiani. Questa storia intricata vede coinvolti anche dei neofascisti che, secondo una sentenza della magistratura, avrebbero ricevuto tra l’altro finanziamenti da Licio Gelli.
E’ un intreccio solido quello che traspare dalle inchieste giudiziarie su mafia e massoneria delle logge coperte.

Uno studio attento della struttura massonica più conosciuta, la P2, fa rilevare che la regione più rappresentativa tra gli iscritti alla loggia di Gelli è proprio la Sicilia, che non è, storicamente, una terra di grandi tradizioni massoniche.
La P2,quindi, risultò coinvolta in molte inchieste giudiziarie sulle stragi e su alcuni omicidi politici
Non è un caso che a Castiglion Fibocchi, alla villa di Gelli, perquisita dai carabinieri per ordine dei magistrati milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone, il 17 marzo 1981, i giudici milanesi siano arrivati, indagando sul misterioso soggiorno in Sicilia di Michele Sindona, il bancarottiere di Patti, iscritto alla P2 e legato a filo doppio ad Andreotti.
Nel corso del suo finto sequestro, Sindona si era avvalso dell’appoggio, tanto della massoneria quanto della mafia.
Proprio durante il suo soggiorno in Sicilia, nell’estate del 1980, si aprì, con gli omicidi del commissario Boris Giuliano e del giudice Cesare Terranova, la stagione dei cosiddetti delitti “eccellenti”.
E’ solo un caso che nella stessa estate ci sia la strage alla stazione di Bologna?

Il 20 maggio 1981, il governo messo alle strette dallo scandalo, comunicò al Parlamento la lista dei presunti aderenti alla loggia segreta P2 di Licio Gelli, alla quale risultavano affiliati, tre ministri, un segretario di partito, i vertici dei servizi segreti, militari, imprenditori, parlamentari, banchieri, giornalisti. .

Ogni nome era preceduto da un numero di fascicolo e da un numero di gruppo; seguiva un “codice”, al quale talvolta seguiva il numero della tessera e un appunto relativo alle quote sociali.
Nella lista c’erano: 52 alti ufficiali dei Carabinieri, 50 dell’esercito,
37 della Guardia della Finanza, 29 della Marina, 11 Questori, 5 Prefetti, 70 imprenditori, (uno era un famoso costruttore di Milano, figlio di un dipendente della Banca Rasini, pluriinquisito e pluriindagato), 10 presidenti di banca, 3 ministri in carica, 2 ex ministri, il segretario di un partito di governo, 38 deputati,14 magistrati, sindaci, primari ospedalieri, notai e avvocati.
Gli elenchi della loggia segreta P2 del Venerabile Maestro Gelli, come si può notare, erano impressionanti: politici, imprenditori, giornalisti, alti gradi delle forze armate, tutori dell’ordine pubblico, funzionari dello stato, dirigenti dei servizi segreti, magistrati. E ancora,119 piduisti già insediati ai vertici delle maggiori banche, nel ministero del tesoro, e in quello delle finanze.
Gente che spesso aveva giurato fedeltà e obbedienza tanto alla Costituzione Italiana quanto alla massoneria.
Secondo la commissione parlamentare d’inchiesta, l’elenco completo degli iscritti alla P2 era all’incirca di 2500 nomi; ne mancano 1650. Solo la magistratura ha avuto il coraggio di punire gli appartenenti alla P2.
L’assoluzione più sconcertante è stata quella dei militari, voluta dal ministro della Difesa Lagorio, socialista e iscritto alla massoneria.

Tratto da: LA RAGNATELA: DALLE TRAME NERE AL GOVERNO BERLUSCONI.
Traccia storica e considerazioni di Renata Franceschini, Soccorso Popolare - Padova

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 12

Ormai da qualche mese mi ero licenziato dall’alfa romeo

Uno dei primi messi nella lista di mobilità

Avevo fatto diverse supposizioni del perché fossi stato praticamente licenziato ma veramente non me ne veniva nessuna,se non quella delle iniziali del mio cognome

Veramente mi avevano proposto un ennesimo corso di aggiornamento che rifiutai

Lasciai l’appartamento dove avevo abitato nell’illusione di un benessere durevole e ne scelsi uno meno caro

Una stanza e cucina

Avevo fatto costruire un soppalco a metà stanza da letto dove dormivo con mia moglie ;i due bambini in quello che da quel momento sarebbe stato il mio salotto-soggiorno.

Quella sera tornavo a casa,dopo due giorni di assenza

Ero stato in Calabria da parenti che ptesero aiutarmi a trovare un lavoro;la liquidazione stava agli sgoccioli

Cercai di mascherare con un vassoietto di dolci la mia ennesima sconfitta,ancora una volta niente

Aprii la porta e mia moglie mi accolse piangendo

Riuscì solo a mormorare : Berlinguer è in coma!

Un ictus cerebrale lo ha colpito al termine di un comizio elettorale a Padova. Nella notte, il leader del Pci è stato sottoposto a un lungo e delicato intervento chirurgico: è entrato in camera operatoria a mezzanotte e 15 minuti e c’ è rimasto fin quasi all’ alba. “Le sue condizioni sono gravissime”, affermano i medici della clinica neurologica dell’ Università. A Padova, sempre nella notte sono giunte la moglie e le figlie accompagnate dal senatore Pecchioli e dal professor Francesco Ingrao. Il primo bollettino medico, emesso a mezzanotte e mezzo dai professori Enrico Schergna, Salvatore Mingrino e Giampiero Giron, afferma che “gli accertamenti clinici e strumentali hanno documentato l’ esistenza di uno spandimento emorragico, per cui si è ritenuto opportuno procedere a un intervento chirurgico”. In una serata fredda, sotto un cielo pieno di nuvole che minacciavano pioggia, Enrico Berlinguer aveva cominciato a parlare in piazza della Frutta, nel cuore di Padova, alle 21,30 davanti a oltre 5.000 militanti comunisti giunti da tutto il Veneto. Accanto a lui i dirigenti locali del parito: Lalla Trupia, candidata alle europee, il segretario regionale del Pci Gianni Pellicani, il segretario padovano Pietro Folena. Le immagini del comizio venivano riprese anche da una telecamera e diffuse attraverso uno schermo situato alle spalle dell’ oratore. Berlinguer ha parlato normalmente per circa la metà del suo comizio, sottolineando anzi con energia alcuni passaggi chiave dal punto di vista politico, soprattutto quando si soffermava a parlare, in termini critici, dell’ azione del governo, della mozione di fiducia richiesta ieri al Senato, delle accuse di Formica ad Andreotti. “Siamo ancora una volta in presenza di una situazione che va precipitando, di fronte a un momento pieno di insidie per le istituzioni della Repubblica. Ma è certo che...”. Improvvisamente il leader comunista è impallidito, il tono della sua voce è calato di colpo, la frase è rimasta a metà. Nella piazza è piombato il silenzio. Berlinguer si è voltato, le spalle al microfono, per prendere un bicchiere d’ acqua, ma appena l’ ha bevuto è stato colto da alcuni colpi di tosse. Lo schermo gigante della federazione del Pci dava l’ immagine del malore che aveva colpito il segretario a tutta la folla presente nella piazza. Berlinguer ha avuto un conato di vomito, ma poi si è ripreso quasi subito. Ed è andato avanti. Così Antonio Tatò, braccio destro del segretario del Pci, racconta la fine del comizio: “Abbiamo capito subito che Berlinguer stava male. Gli abbiamo detto: non parlare più, vieni via”. “Ma lui - prosegue Tatò - ci ha fatto segno di no, voleva finire il discorso. E ce l’ ha fatta, nonostante le nostre insistenze. Si è interrotto altre due, tre volte, la sua voce si è affievolita, ha saltato qualche passo del discorso, ma è arrivato alla fine. Si reggeva in piedi a fatica, è sceso dal palco e si è seduto. Berlinguer ha vomitato, s’ è portato una mano alla testa e ha chiuso gli occhi. Abbiamo subito capito che stava molto male”. Un esponente della federazione padovana del Pci ha annunciato alla folla che il discorso era concluso e che “il compagno Berlinguer” aveva “preso solo un po’ di freddo, non ha niente, il comizio è finito”. La gente è sfollata tranquillamente ma il malore di Berlinguer era sempre più evidente. Il segretario del Pci è stato sorretto da alcuni esponenti del servizio d’ ordine che gli stavano attorno. A braccia è stato caricato su un’ auto. Le sue condizioni sono apparse subito molto gravi. Il segretario comunista è stato quindi portato con la sua Alfetta all’ hotel Plaza, dove alloggiava, e di qui è stato chiamato subito il medico dell’ albergo, che ha proceduto ad un primo sommario consulto col dottor Lenci, il medico del seguito di Berlinguer. I due sanitari sono stati unanimi subito nel valutare molto gravi le condizioni del segretario. Qualcuno ha parlato anche della possibilità che si trattasse di ictus cerebrale, e del timore che potesse insorgere uno stato di coma. Berlinguer difatti sembrava stesse per perdere conoscenza da un momento all’ altro. I medici hanno deciso di farlo ricoverare. E’ stata chiamata un’ ambulanza, che è partita poco dopo a sirene spiegate verso la Clinica neurologica dell’ ospedale padovano. Portato nella stanza al primo piano, della Clinica neurologica, Berlinguer è stato subito sottoposto a una serie di esami, che hanno rivelato ben presto la gravità del male e lo spandimento emorragico. Poco dopo mezzanotte si sono aperte le porte della sala operatoria e l’ onorevole Berlinguer è stato sottoposto ad una delicata operazione al cervello. Alle 2, da Botteghe Oscure hanno comunicato che i medici erano riusciti a bloccare l’ emorragia, e le condizioni del cuore del paziente venivano definite “buone”, ma l’ intervento non era ancora concluso. Il presidente della Repubblica ha chiesto ai medici di Padova di essere costantemente informato delle condizioni di Berlinguer. Da Londra, dove partecipa al vertice dei sette paesi più industrializzati dell’ occidente, il presidente del Consiglio Bettino Craxi si è messo in contatto con l’ ospedale e la prefettura di Padova per avere notizie del segretario del Pci. Anche il segretario della Dc, De Mita, ha telefonato da Taranto. A Roma, intanto, i dirigenti del partito presenti nella capitale si sono subito riuniti a Botteghe Oscure. Natta, Chiaromonte, Napolitano, Occhetto, Ingrao e Minucci sono arrivati per primi nella sede della Direzione.

Enrico Berlinguer ha compiuto 62 anni il 25 maggio scorso. Deputato dal 1968, è segretario del Pci dal marzo del 1972.

Oggi l’ “Unità” uscirà in edizione straordinaria. - dal nostro inviato ROBERTO BIANCHIN

******
Un popolo intero trattiene il respiro e fissa la bara,
sotto al palco e alla fotografia.
La città sembra un mare di rosse bandiere
e di fiori e di lacrime e di addii.
Eravamo all’Osteriola, una sera come tante,
a parlare come sempre di politica e di sport,
è arrivato Ghigo Forni, sbianchè come un linsol, (..., bianco come un lenzuolo,)
an s’capiva ‘na parola du bestemi e tri sfundon. ( non si capiva una parola due bestemmie e tre strafalcioni.)
”Hanno detto per la radio che c’è stata una disgrazia,
a Padova è stato male il segretario del PCI”
Luciano va al telefono parla in fretta e mette giù
”Ragazzi, sta morendo in compagno Berlinguer”.
Pipein l’è andè in canteina (...è andato in cantina)
a tor des butiglioun, (a prendere dieci bottiglioni)
a i’am fat fora in tri quert d’ora, ( li abbiamo fatti fuori in tre quarti d’ora)
l’era al vein ed l’ocasioun ( era il vino delle occasioni)
a m’arcord brisa s’le suces ( non ricordo cosa è successo)
d’un trat as’sam catee ( d’un tratto ci siamo trovati)
in sema al treno c’as purteva ( sul treno che ci portava)
ai funerel ed Berlinguer. ( ai funerali di...)

A Modena in stazione c’era il treno del partito,
ci ha raccolti tutti quanti, le bandiere e gli striscioni
a Bologna han cominciato a tirare fuori il vino
e a leggersi a vicenda i titoli dell’Unità.
C’era Gianni lo spazzino con le carte da ramino,
ripuliva tutti quanti da Bulagna a Sas Marcoun, (...da Bologna a Sasso Marconi)
ma a Firenze a selta fora Vitori “al professor”, ( ma a Firenze salta fuori Vitorio “il professore”,)
do partidi quattro a zero dopo Gianni l’è stè boun. ( due partite quattro a zero dopo Gianni è stato buono)
I vecc i an tachee ( I vecchi hanno cominciato)
a recurder i teimp andee, ( a ricordare i tempi andati)
i de d’la resisteinza ( i giorni della Resistenza)
quand’i eren partigian ( quando erano partigiani)
a’n so brisa s’le cuntee ( non so se sia contato)
ma a la fine a s’am catee ( ma alla fine ci siamo trovati)
in sema al treno c’as purteva (sul treno che ci portava)
ai funerel ed Berlinguer. ( ai funerali di...)
Gli amici e i compagni lo piangono, i nemici gli rendono onore,
Pertini siede impietrito e qualcosa è morto anche in lui.
Pajetta ricorda con rabbia e parla con voce di tuono
ma non può riportarlo tra noi.
Roma Termini scendiamo, srotoliamo le bandiere,
ci fermiamo in piazza esedra per il solito caffè
parte Gianni il segretario e nueter tot adree (...e noialtri tutti dietro)
per andare a salutare il compagno Berlinguer.

Con i fazzoletti rossi ma le facce tutte scure,
non c’era tanta voglia di parlare tra di noi,
po’ n’idiota da ‘na ca la tachè a sghignazer, ( poi un’idiota da una casa ha cominciato a sgnignazzare)
a g’lom cadeva a tgnir ferem Gigi se no a’l finiva mel. ( siamo riusciti a tenere fermo Gigi se no finiva male)
A sam seimpre ste de dre ( Siamo sempre stati dietro)
e quand’a sam rivee ( e quando siamo arrivati)
la piaza l’era pina ( la piazza era piena)
”ma quant comunesta a ghè” (“ma quanti comunisti ci sono”)
a’n g’lom cadeva a veder un caz ( non siamo riusciti a vedere un cazzo)
ma anc nueter as’ sam catee ( ma anche ci siamo trovati)
in sema al treno c’as purteva (sul treno che ci portava)
ai funerel ed Berlinguer ( ai funerali di...)
Pipein l’è andè in canteina
a tor des butiglioun,
a i’am fat fora in tri quert d’ora,
l’era al vein ed l’ocasioun
a m’arcord brisa s’le suces
d’un trat as’sam catee
in sema al treno c’as purteva
ai funerel ed Berlinguer.

 

I FUNERALI DI BERLINGUER
da “Riportando tutto a casa” (6’38”), una versione unplugged nel minicd allegato al libro “L’Italia ai tempi dei MCR” (6’31”).a storia dei funerali di Enrico Berlinguer nel giugno ‘84 vista da un gruppo di militanti di Carpi che volle parteciparvi
.

Capitolo 11

Ormai era un anno che vivevo in una piccola cittadina alla periferia di Bologna

Ero riuscito finalmente dopo cinque anni a trovare lavoro,a rifare il mio mestiere

La mia famiglia era ancora a Napoli e come tutti “gli emigranti” e gli studenti avevo trovato un posto letto

Pagavo 250 mila lire al mese una camera condivisa con uno studente calabrese

Il proprietario era un operaio e sindacalista della cgil della Marelli che aveva ereditato l’appartamento dal padre

Un parco di case popolari costruito negli anni 70 che gli inquilini avevano riscattato dopo pochi anni per esigenze di” cassa “del comune

Qualche studente aveva scritto sotto un volantino di offerta posti letto :

Bologna città dai tetti rossi e dai camini tristemente neri “

Avevo ripreso anche la mia attività di partito e fatto stimare dal giornale locale per alcuni articoli che avevo mandato sotto forma di lettere

Ben presto mi chiamarono in redazione

Il 9 novembre del 1989 cade il Muro di Berlino.

È una data emblematica e un punto di svolta per la società politica internazionale. Insieme al Muro, alla paziente tessitura di Solidarnosc, con il suo epilogo, alla sweet revolution di Ungheria, Bulgaria, Romania, crolla infine l’impero comunista.

La perestrojka, il nuovo corso inaugurato da Gorbaciov con la sua politica della glasnost, della trasparenza, porta al crollo del colosso sovietico: il tentato golpe dell’agosto del ’91 spiana la strada al nuovo governo di Eltsin; segue il movimento secessionista delle quindici repubbliche sovietiche,che segna la fine dell’impero sovietico e con esso di una lunga fase della storia europea e mondiale segnata dalla guerra fredda

Dalle lettere che arrivavano in redazione si poteva capire il travaglio e il dolore di molti compagni nel costatare quello che da quasi un ventennio prima quasi bisbigliato ,poi sempre più ad alta voce,fino a gridarle che quel sistema aveva fallito

Non era riuscito a trovare un equilibrio tra :libertà individuali e controllo mezzi di produzione ;dare cioè vita ad un mercato libero equo -sostenibile

C’era l’impressione,in molte di quelle lettere che arrivavano in redazione,che la caduta dell’URSS fosse stata voluta e pilotata dalla burocrazia di partito arricchitasi a dismisura

emblematica una lettera :

Cari compagni chi sa perché quello che è avvenuto in URSS mi fa venire in mente una poesia di Pasolini :

Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano

Li osservo, questi uomini, educati

ad altra vita che la mia: frutti

d’una storia tanto diversa, e ritrovati,

quasi fratelli, qui, nell’ultima forma

storica di Roma. Li osservo: in tutti

c’è come l’aria d’un buttero che dorma

armato di coltello: nei loro succhi

vitali, è disteso un tenebrore intenso,

la papale itterizia del Belli,

non porpora, ma spento peperino,

bilioso cotto. La biancheria, sotto,

fine e sporca; nell’occhio, l’ironia

che trapela il suo umido, rosso,

indecente bruciore. La sera li espone

quasi in romitori, in riserve

fatte di vicoli, muretti, androni

e finestrelle perse nel silenzio.

È certo la prima delle loro passioni

il desiderio di ricchezza: sordido

come le loro membra non lavate,

nascosto, e insieme scoperto,

privo di ogni pudore: come senza pudore

è il rapace che svolazza pregustando

chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;

essi bramano i soldi come zingari,

mercenari, puttane: si lagnano

se non ce n’hanno, usano lusinghe

abbiette per ottenerli, si gloriano

plautinamente se ne hanno le saccocce

piene.

Se lavorano - lavoro di mafiosi

macellari,

ferini lucidatori, invertiti commessi,

tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,

manovali buoni come cani - avviene

che abbiano ugualmente un’aria di ladri:

troppa avita furberia in quelle vene...

 

Sono usciti dal ventre delle loro madri

a ritrovarsi in marciapiedi o in prati

preistorici, e iscritti in un’anagrafe

che da ogni storia li vuole ignorati...

Il loro desiderio di ricchezza

è, così, banditesco, aristocratico.

Simile al mio. Ognuno pensa a sé,

a vincere l’angosciosa scommessa,

a dirsi: “È fatta,” con un ghigno di re...

La nostra speranza è ugualmente

ossessa:

estetizzante, in me, in essi anarchica.

Al raffinato e al sottoproletariato spetta

la stessa ordinazione gerarchica

dei sentimenti: entrambi fuori dalla

storia,

in un mondo che non ha altri varchi

che verso il sesso e il cuore,

altra profondità che nei sensi.

In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.

 

La volontà della burocrazia di partito diventata la nuova borghesia russa e dell’alta finanza,attraverso la protesta popolare,di annientare l’aristocrazia parassitaria di partito e sostituirsi ad essa

In poche parole la libertà tanto conclamata e desiderata sarà solo quella che il proletariato russo passerà sotto nuovi padroni che non avranno più inibizioni di sorta

 

 

 

La importante ,tra le molte pur importanti conseguenze, che interessava in quel momento è il venir meno del motivo che produceva e legittimava l’esclusione del Partito comunista italiano dal governo.

La profonda, conseguente crisi interna che colpisce il partito ha un primo importante sbocco nella riunione del Comitato centrale, il 26 novembre ’89, che ha all’ordine del giorno un punto decisivo: il cambio del simbolo, ovvero dell’identità del partito.

  A  Rimini si tiene il XX Congresso del PCI,  nel  quale  si sancisce  la   nascita  del Partito  Democratico  della  Sinistra. Occhetto,  dopo una prima votazione invalidata per l’assenza  del quorum,   risulta  eletto  segretario con il 72% dei  voti  dei delegati.  Al  Congresso sono state presentate  tre  mozioni:  la mozione di Occhetto, Per il Partito democratico della sinistra; quella di Rifondazione comunista (sottoscritta, tra gli  altri, da  G. Angius,  P. Ingrao, L. Magri, A. Natta,  S. Garavini,  R. Serri, A. Cossutta, L. Libertini, E. Salvato, L. Castellina,  A. Tortorella), dalla  quale  scaturiscono per alcuni dei  firmatari   le  ragioni della scissione e della formazione del Partito della Rifondazione Comunista;  la  mozione  Per un moderno  partito  antagonista   e riformatore,  proposta,  tra gli altri, da  A. Bassolino,   A. Asor Rosa, A. Minucci, M. Tronti. 
La mozione di Occhetto fissa le fondamentali coordinate del nuovo Partito    nella  grande  idea  della  democrazia  come   via   al socialismo  e  della democrazia come mezzo e come   fine  e  ne disegna l’organizzazione, sottolineando la necessità di   superare il   modello  centralistico  a  favore  di   uno   decentrato   e autonomistico.  Secondo il segretario, la scelta di dar vita  al PDS rappresenta la sola garanzia che non vada disperso il meglio del  patrimonio  politico  e morale del  PCI.   Con  la  palesata intenzione  di  aderire all’Internazionale   Socialista,  Occhetto conferma l’obiettivo di contribuire allo sviluppo di un processo di   profondo  rinnovamento  della   sinistra,  al  quale   devono concorrere  correnti   di pensiero politico  diverse:  socialiste, democratiche,   cristiane,  liberali-progressiste,  e  quelle  che nascono    dal  movimento  pacifista,   femminista,    ecologista. Dichiarando  l’impegno del PDS a costruire, nell’elaborazione  e nella  prassi,  un rapporto nuovo tra la funzione del   mercato  e l’esigenza di una direzione consapevole della produzione e   dello sviluppo sociale, si riconosce l’ineluttabile necessità di  una riforma    del   sistema  politico  che  renda    possibili   delle alternative di governo e un ricambio delle classi dirigenti.

In quei giorni,visto che il giornalino di partito era bimestrale avevo proposto di anticipare la commemorazione dei 54 anni dalla morte di Gramsci con qualcosa di diverso dall’articolo scritto da uno di noi

La verità ,che mi fu perdonata dai compagni di redazione è quella che pur riconoscendo l’esigenza di un cambiamento avevo mal digerito sia la scelta della maggioranza che quella fatta dal nascente rifondazione

Quindi pubblicai , l’annuncio della morte di Gramsci fatta dalla radio spagnola da: Camillo Barberi

Lavoratori! Compagni!

Antonio Gramsci è morto, dopo undici anni di carcere, in una clinica, guardato a vista dai poliziotti e negato alla famiglia fino negli spasmi dell’agonia. Mussolini è un tiranno che ha buon fiuto per individuare i nemici più temibili: e tra questi egli teme le intelligenze solide ed i caratteri inflessibili. Mussolini colpisce alla testa le opposizioni: scagliando la Ceka del Viminale contro Matteotti, facendo linciare dagli squadristi Amendola, rendendo la vita impossibile a Gobetti, gettando in carcere Riccardo Bauer, Ernesto Rossi ed altri intellettuali di prim’ordine. Mussolini ha voluto la morte di Gramsci. Non gli bastò saperlo al confino, tubercolotico. Lo volle sepolto vivo in carcere, dove lo tenne pur sapendolo soggetto ad emotisi, a svenimenti prolungati, a febbri altissime.
Il prof. Arcangeli, che visitò Gramsci nel maggio 1933, dichiarò in un rapporto scritto che <<il detenuto Gramsci non potrà sopravvivere a lungo in condizioni simili. Il suo trasferimento si impone in un ospedale civile o in una clinica, a meno che sia possibile accordargli la libertà condizionale>>.
Mussolini, pensando che un avversario avvilito è preferibile ad un avversario morto in piedi, gliela avrebbe accordata, la libertà condizionale, ma in calce ad una domanda di grazia. Ma Gramsci non era un qualsiasi Bombacci e, rifiutò la grazia, che sarebbe stata, secondo come egli ebbe a definirla <<una forma di suicidio>>.
Il martirio, già settennale, continuò. Passarono ancora degli anni. Le condizioni del recluso si fecero così gravi da far temere prossima la morte. Un’agitazione internazionale reclamò la liberazione. Quando fu ordinato il trasferimento in clinica, la concessione era fatta ad un moribondo.
Gramsci era un intellettuale nel senso intero della parola, troppo sovente usata abusivamente per indicare chiunque abbia fatto gli studi. Lo dimostrò in carcere: continuando a studiare, conservando sino all’ultimo le sue eccezionali facoltà di critica e di dialettica. E lo aveva dimostrato come capo del Partito Comunista Italiano, rifuggendo da qualsiasi lenocinio retorico, rifuggendo dalle cariche, sapendo isolarsi.
Piero Gobetti scriveva di lui, nel suo saggio La rivoluzione liberale:
<<La preparazione e la fisionomia spirituale di Antonio Gramsci invece apparivano profondamente diverse da queste tradizioni, già negli anni in cui egli compiva i suoi studi letterari all’Università di Torino e si era iscritto al Partito Socialista, probabilmente per ragioni umanitarie maturate nel pessimismo della sua solitudine di sardo emigrato.
Pare venuto dalla campagna per dimenticare le sue tradizioni, per sostituire l’eredità malata dell’anacronismo sardo con uno sforzo chiuso e inesorabile verso la modernità del cittadino. Porta nella persona fisica il segno di questa rinuncia alla vita dei campi, e la sovrapposizione quasi violenta di un programma costruito e ravvivato dalla forza della disperazione, dalla necessità spirituale di chi ha respinto e rinnegato l’innocenza nativa.
Antonio Gramsci ha la testa di un rivoluzionario; il suo ritratto sembra costruito dalla sua volontà, tagliato rudemente e fatalmente per una necessità intima, che dovette essere accettata senza discussione: il cervello ha soverchiato il corpo. Il capo dominante sulle membra malate sembra costruito secondo i rapporti logici necessari per un piano sociale, e serba dello sforzo una rude serietà impenetrabile; solo gli occhi mobili e ingenui ma contenuti e nascosti dall’amarezza interrompono talvolta con la bontà del pessimista il fermo vigore della sua razionalità. La voce è tagliente come la critica dissolutrice, l’ironia toglie la consolazione dell’umorismo. C’è nella sua sincerità aperta il peso di un corruccio inaccessibile; dalla condanna della sua solitudine sdegnosa di confidenze sorge l’accettazione dolorosa di responsabilità più forti della vita, dure come il destino della storia; la sua rivolta è talora il risentimento e talora il corruccio più profondo dell’isolano che non si può aprire se non con l’azione, che non può liberarsi dalla schiavitù secolare se non portando nei comandi e nell’energia dell’apostolo qualcosa di tirannico. L’istinto e gli affetti si celano ugualmente nella riconosciuta necessità di un ritmo di vita austera nelle forme e nei nessi logici; dove non vi può essere unità serena e armonia supplirà la costrizione, e le idee domineranno sentimenti e espansioni. L’amore per la chiarezza categorica e dogmatica, propria dell’ideologo e del sognatore, gli interdicono la simpatia e la comunicazione, sicché sotto il fervore delle indagini e l’esperienza dell’inchiesta diretta, sotto la preoccupazione etica del programma, sta un rigorismo arido e una tragedia cosmica che non consente un respiro di indulgenza. Lo studente conseguiva la liberazione dalla retorica propria della razza negando l’istinto per la letteratura e il gusto innato nelle ricerche ascetiche del glottologo; l’utopista detta il suo imperativo categorico agli strumenti dell’industria moderna, regola colla logica che non può fallire i giri delle ruote nella fabbrica, come un amministratore fa i suoi calcoli senza turbarsi, come il generale conta le unità organiche apprestate per la battaglia: sulla vittoria non si calcola e non si fanno previsioni perché la vittoria sarà il segno di Dio, sarà il risultato matematico del rovesciamento della praxis. Il segno epico è dato qui dal freddo calcolo e dalla sicurezza silenziosa: c’è la borghesia che congiura per la vittoria del proletariato>>.
Per coloro, i più giovani, che nulla o poco sapessero dell’opera politica di Gramsci, ricorderemo che egli cominciò a prendere parte attiva alla vita del Partito Socialista nel corso della guerra, come collaboratore della stampa socialista di Torino, nella quale fu tra i primi a seguire con cura e a valutare gli sviluppi teorici e pratici della rivoluzione russa.
Nel 1919 fondò la rivista L’Ordine Nuovo, che fu una delle migliori, e sotto certi aspetti la migliore rivista di avanguardia. Gramsci, che aveva preparazione di glottologo, fu uno dei pochi socialisti dalla cultura filosofica moderna ed aggiornata.
Del pensiero politico di Gramsci dell’epoca de L’Ordine Nuovo così scriveva Umberto Calosso, nell’agosto 1933, in un quaderno di Giustizia e Libertà:
<<L’Ordine Nuovo rivelava fin dal titolo un indirizzo originale, un programma di serietà costruttiva, lontano dalla retorica rivoluzionaria, quasi di un organo ufficiale avant lettre di uno stato socialista, in qualche modo già fondato.
Esso non concepiva la rivoluzione come un attacco frontale, ma come un esplodere di germi interni. Questi germi ricchi di tutto il futuro, Gramsci li vedeva nelle commissioni interne di fabbrica.
Allo sviluppo delle commissioni interne, create come intermediarie tra i sindacati operai e la direzione padronale in organi di autogoverno del proletariato, Gramsci dedicò tutta la sua anima, tanto nel giornale che personalmente. Lì era, secondo lui, l’anticipo attuale del governo di domani, lì l’incarnazione concreta del nuovo ordine, lì il prezioso “sancta sanctorum” davanti a cui Gramsci si mise a guardia con l’intransigenza feroce della chioccia sulla sua covata o del pastore sardo in difesa della sua donna. Tutto quello che poteva parere una minaccia allo sviluppo dell’organizzazione di fabbrica, Gramsci lo sentiva attraverso una gelosia che poteva sembrare settaria a chi non ne afferrava il motivo profondamente obiettivo.
Le organizzazioni sindacali soprattutto gli erano sospette perché troppo vicine agli interessi immediati degli operai, troppo impegnate nella difesa longitudinale di categoria o generica di massa, troppo burocratiche e sperimentali di fronte alle nuove cellule appena in via di nascita.
I “mandarini”, i bonzi, tutte le code dell’immobilità cinese furono mobilitate contro i funzionari sindacali; e la camera del lavoro, istituto topografico organico del proletariato, venne contrapposta ai sindacati come nell’anatomia umana l’organo vivente si contrappone al tessuto convenzionale.
Anche il partito ufficiale, il Barnum, era guardato con ostilità di giorno in giorno più aperta, fino allo scoppio della scissione. E come contropartita a questa intransigenza specifica, l’Ordine Nuovo adottava la più larga comprensione e la più spregiudicata libertà di fronte alle correnti culturali che si agitavano nel paese e il suo atteggiamento verso il liberalismo gobettiano, verso le ricerche filosofiche e religiose, verso gli sperimentalismi letterari, non aveva nulla di superficialmente partigiano e politico, tanto che il giornale nella sua povertà, si collocò molto in alto nel concetto del pubblico colto e si impose all’attenzione degli osservatori della vita italiana. Sorel ne parlò prestissimo sul Resto del Carlino di Missiroli e più tardi Croce, pur lontanissimo dalle idee del giornale, non ebbe paura di camminare attraverso i passaggi obbligati e i blindamenti per porgere una visita alla ridotta di via Arcivescovado.
In questo ordine di idee l’Ordine Nuovo fu il giornale più libero che l’Italia abbia avuto dopo la Voce e l’Unità, un foglio dove si poteva veramente discutere tutto e di tutto, senza residui della meschinità culturale, tanto comune agli uomini politici italiani che fanno entrare il loro catechismo di destra o di sinistra persino nell’abbottonamento dei pantaloni>>.
Gobetti e Calosso ci hanno aiutato a lumeggiare i tratti salienti e centrali della personalità di Gramsci.
L’uomo che aveva suscitato l’interesse di Sorel, di Croce e di altri pensatori è stato ucciso lentamente. Per undici anni è stato mantenuto fuori della circolazione culturale ed impedito perfino nell’attività di cultore di glottologia.
Noi salutiamo dalla radio della CNT-FAI di Barcellona, l’intellettuale valoroso, il militante tenace e dignitoso che fu il nostro avversario Antonio Gramsci, convinti che egli ha portato la sua pietra all’edificazione dell’ordine nuovo, ordine che non sarà quello di Varsavia o quello carcerario e satrapesco attualmente vigente in Italia, bensì un moderno assetto politico-sociale in cui il sociale e l’individuale si armonizzeranno fecondamente in un’economia collettivista e in un ampio ed articolato federalismo politico”.

Camillo Berberi

 

 

 

 

Nello stesso numero :

 

Omertà aventinista

(l’Unità, 5 agosto 1926, anno 3, n. 184, articolo non firmato)
I documenti dell’attività dei partiti e dei gruppi della ex coalizione dell’Aventino venuti alla luce in questi giorni sono tutti documenti anticomunisti. Oggi, come dopo il fatto Matteotti, come prima della marcia su Roma, come nel periodo della occupazione delle fabbriche, i vari componenti della cosiddetta democrazia italiana - massimalisti in prima linea - si adoperano, ognuno nel campo che gli compete, a spezzare le forze rivoluzionarie degli operai e dei contadini. Ogni volta che i lavoratori riescono ad organizzarsi, a coordinare i loro sforzi su di un terreno rivoluzionario, questi elementi disgregatori intensificano la loro attività compiendo nel campo della lotta politica la stessa funzione che gli spezzatori di scioperi compiono nelle lotte economiche del proletariato. Ed anche ora, al vasto movimento per il fronte unico che conquista rapidamente la maggioranza dei lavoratori, si oppone - oltre, naturalmente, la reazione - una nuova offensiva anticomunista dei partiti sedicenti democratici e socialisti. Democratici e riformisti, massimalisti, popolari, repubblicani, responsabili in solido di fronte alle masse della politica aventinista che ha reso possibile la controffensiva del fascismo, continuano, anche dopo lo sfacelo della coalizione, a lavorare nell’unico intento di impedire ad ogni costo la ripresa del movimento rivoluzionario del proletariato.
Nell’elaborazione del programma per il partito socialista dei lavoratori italiani, i riformisti accentuano ancora il loro atteggiamento controrivoluzionario. Essi affermano di voler restare fedeli alle tradizioni marxiste “respingendo i tentativi revisionisti promossi dalle correnti idealistiche e neoprotestanti”, ma nello stesso tempo si dichiarano “fermamente convinti della pregiudiziale che per ogni difesa del movimento operaio sia indispensabile la libertà”. Da questa premessa non può derivare che l’avversione più ostinata contro il fronte unico dei lavoratori, contro ogni tentativo di ripresa sindacale o politica del proletariato. Allo stesso modo dei fascisti, i riformisti vogliono abolire la lotta di classe alleandosi con la borghesia, in attesa che la libertà piova dal cielo, in attesa che la borghesia stessa offra al proletariato la libertà di combattere e di riconquistare le posizioni perdute. È questo l’atteggiamento che tutti gli ex aventinisti assumono nell’attuale situazione; è questo il “programma” comune di tutti i nemici del fronte unico. Il partita comunista, invece, afferma che presupposto indispensabile per la conquista di qualsiasi libertà è la ripresa del movimento di classe del proletariato, che la libertà dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi.
Anche il gruppetto dei miserabili politicanti che dirigono i resti del partito popolare si sono fatti vivi in questi giorni con una circolare ai deputati ed ai segretari provinciali del partito sulla questione dell’invio di una delegazione operaia in Russia sollevata dal Lavoratore di Torino.(1) Questa circolare è un nuovo documento della sfrontata malafede dei suoi autori che invano tentano di riguadagnare la fiducia delle masse irrimediabilmente perduta nei mercanteggiamenti con tutti i governi della borghesia, da quello di Giolitti, a quello di Bonomi, a quello di Facta, a quello di Mussolini. I popolari vogliono aggrapparsi alla iniziativa del Lavoratore per fingersi nuovamente amici delle masse, gettare il discredito sui comunisti e sull’Unione soviettista, sabotare l’invio della delegazione, stroncare fin dall’inizio l’orientamento dei lavoratori bianchi verso il fronte unico. Ciò che l’Azione cattolica ed i clerico-fascisti non hanno ottenuto con la loro aperta ostilità, si propongono di ottenerlo i dirigenti popolari con l’abituale menzogna, con l’insuperabile ipocrisia, la lusinga da trivio.
”Nella discussione - dice la circolare del partita popolare - sono intervenuti organi clerico-fascisti per la solita funzione di ricatto e di delazione e comunisti per rovesciare sul partito popolare italiano una gragnuola d’insolenze, le quali hanno trovato la loro condanna più che nella scemenza di cui si sostanziano, nell’elogio e nell’ospitalità avute dalla stampa fascista: le polemiche tra 1’Unità e 1’Avanti! ci hanno dimostrato che i comunisti italiani hanno il compito di seminare zizzania tra le masse, di tradirle ogni qualvolta stiano per conseguire un successo, di servire insomma - come i loro colleghi clerico-fascisti - il regime per conto dei Soviet. Il fatto che l’attacco, non motivato da nessun nostro atteggiamento, segua alle perquisizioni della polizia romana che ha messo in luce i metodi vilissimi di questi rivoluzionari da operetta combattenti il fascismo con foglietti volanti sistematicamente scoperti prima che vengano lanciati, dimostra un chiaro obbiettivo: diversivo e ricatto e peggio!”.
La calda difesa dell’Avanti! dà un significato preciso a tutta la circolare: i diversi partecipanti alla ex coalizione aventiniana si sono separati soltanto per non perdere, ognuno nel proprio campo, gli ultimi resti di influenza fra le masse, ma continuano, ognuno per proprio conto, la politica aventiniana, sotto maschere diverse, ed a difendersi vicendevolmente. Così riformisti, massimalisti, repubblicani combattono contro il fronte unico proletario perché essi hanno già costituito il fronte unico antiproletario; così popolari e massimalisti si scambiano regolari servigi nella lotta contro i comunisti. In una recente intervista al settimanale popolare, il corrispondente torinese dell’Avanti! si congratulava con i popolari per “la resistenza che essi hanno opposto a seduzioni ed a persecuzioni per rimanere fedeli all’idea democratica” ed approfittava dell’occasione per dare ai redattori del Lavoratore il seguente non richiesto consiglio:
”Essi si debbono guardare molto dalle serenate che stanno facendo sotto le loro finestre i comunisti. Credi a me; noi i comunisti li conosciamo bene; essi sono dei perfetti speculatori in malafede. Fanno l’occhiolino di triglia ai cattolici di sinistra per adoperarli come specchietto per le allodole operaie. La loro unità proletaria è semplicemente un mezzuccio per acciuffare il dominio delle masse operaie che loro sfugge; lo hanno dichiarato apertamente al loro congresso di Francia. Del resto sono dei settari di un assolutismo veramente tipico e sempre dediti a combattere non i nemici del proletariato, ma quelli di cui temono la concorrenza nella propaganda fra le masse. Ne ho avuto recentemente la prova nel Comitato pro Sacco e Vanzetti che si fece a Torino. Quello che non hanno tentato per avere il monopolio dell’idea non venuta da loro! Quali giochi di bussolotti non hanno fatto per valorizzare, attraverso l’iniziativa, la loro mentalità dittatoriale, per l’unità proletaria! Stiano dunque attenti i cattolici del Lavoratore: i comunisti sono dei perfetti lavoratori in malafede”.
Soltanto un imbecille poteva pensare di far presa sui cattolici del Lavoratore e sui lavoratori bianchi con argomenti di questa fatta, ed associandosi per giunta ai dirigenti del partito popolare, quegli stessi dirigenti che nel 1920 hanno costretto i popolari torinesi a bloccare con i fascisti per trenta posti nel Consiglio comunale, quegli stessi dirigenti che hanno trascinato le masse dei lavoratori bianchi sul terreno della collaborazione con Giolitti, con Bonomi, con Facta, con Mussolini, quegli stessi dirigenti contro la cui bassezza morale e politica il movimento torinese del Lavoratore appunto insorge. I massimalisti dovrebbero almeno capire che i lavoratori bianchi non ridaranno la loro fiducia ai dirigenti del partito popolare per il solo fatto che costoro si alleano, dopo di aver preparato e servito il fascismo, con il partito che col fascismo ha firmato il patto di pacificazione. La firma di questo patto ha segnato irrimediabilmente il destino del massimalismo, così come il filofascismo del ‘21 e del ‘22 ha segnato il destino del partito popolare. I massimalisti hanno concesso una mano al collaborazionismo ed hanno poi dovuto dargli tutto il loro braccio e tutto se stesso. L’Aventino era inevitabile per chi aveva firmato il patto di pacificazione e per chi aveva collaborato con il fascismo; la lotta contro il fronte unico e contro i comunisti è inevitabile per chi ha partecipato all’Aventino.
Tutti i gruppi dell’Aventino sono responsabili della nuova offensiva del fascismo; tutti i gruppi dell’Aventino sono legati da omertà che ha come conseguenza inevitabile nuovi tradimenti. La politica dell’Aventino ha provocato un processo di disgregazione ogni giorno più evidente nelle file dei partiti che lo componevano; una parte, sempre più importante, delle masse che seguivano questi partiti si orienta verso il fronte unico e verso il partito comunista, ed è perciò che il blocco dell’Aventino si ricostituisce per la lotta non contro il fascismo ma contro le forze dei lavoratori.
I lavoratori bianchi si staccano dai vecchi dirigenti e i popolari sorretti da tutti i compari tentano di frenarli aggredendo con la diffamazione i comunisti. Gli operai massimalisti aderiscono al fronte unico ed i capi del partito socialista chiudono gli occhi per non vedere, sputano fiele sulle colonne dell’Avanti!: I medi ceti del Meridione abbandonano l’Unione democratica ed il Mondo ed Arturo Labriola, colpiti da isterismo e da travasi di bile, tentano di insultare i comunisti. Così i repubblicani, così i riformisti.
Lo spettro del fronte unico turba i sonni popolati di fantasmi degli ex componenti dell’Aventino. Essi tentano, proclamandosi antifascisti e gettando il discredito sui lavoratori rivoluzionari, di evitare la sorte che le masse preparano loro.
Ma il fronte unico progredisce irresistibilmente ed i lavoratori faranno definitivamente giustizia di questi ingannatori patentati, di questi falsi pastori, di questi servi della reazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 14

Finalmente a 46 anni potevo dire di vivere una vita normale

Lavoravo in una grossa azienda,un pastificio e mi consegnarono le chiavi di un appartamento .due camere soggiorno e cucina

Non vedevo l’ora che i ragazzi e mia moglie venissero a stabilirsi definitivamente

con me

Ci sarebbe voluto ancora qualche anno,preferimmo terminassero gli studi a Napoli

Il 17 febbraio 1992 le indagini della magistratura portano all’arresto di Mario Chiesa, socialista e presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano. Prende avvio l’inchiesta Mani Pulite e, con essa,Tangentopoli. Nel grave scandalo vengono coinvolti i più grossi nomi dell’industria e della politica,dai presidenti di Fiat, Olivetti, ENI, IRI ai massimi esponenti politici del pentapartito. L’opinione

pubblica è scossa e chiede ai magistrati del pool Mani Pulite, e soprattutto all’uomo che più lo rappresenta, Antonio Di Pietro, di procedere, inesorabilmente. Non c’è scampo per nessuno:politici, leader e portaborse, imprenditori, magistrati, rappresentanti del mondo dell’informazione,del settore pubblico quanto privato, sono tutti coinvolti nello scandalo; persino Carnevale, giudice

di Cassazione, è indagato per corruzione. Le attività illecite di corruzione e collusione, a tutti i livelli, si rivelano tanto diffuse da essere connaturate al sistema socio - politico italiano.

Per quanto riguarda i politici, con il 15 dicembre 1992, data in cui Bettino Craxi riceve il suo primo avviso di garanzia per i reati di corruzione, ricettazione e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti, inizia lo smantellamento del cosiddetto CAF: il 27 marzo 1993 sarà infatti la

volta di Giulio Andreotti, che riceve un avviso di garanzia dalla Procura di Palermo per associazione mafiosa, e il 5 aprile 1993 anche ad Arnaldo Forlani verranno ipotizzati i reati di ricettazione e violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Craxi si dimette dasegretario del PSI l’11 febbraio 1993, dopo oltre sedici anni di protagonismo politico indiscusso e,

dopo avere ricevuto ormai ben sei avvisi di garanzia. I vari segretari dei diversi partiti, così come numerosi ministri, vengono citati come testimoni o indagati per corruzione.

Nella primavera del ’93 rassegnano le dimissioni ben sette ministri dell’uscente governo Amato (giugno 1992-aprile 1993) per effetto delle indagini in corso sul loro conto (subentra il governo Ciampi, che vede per la prima volta come primo ministro un non - parlamentare e che è costituito da un certo numero di tecnici e di esponenti di più partiti). Il processo a Sergio Cusani (maxi tangente Enimont; condanna a otto anni di carcere), che coinvolge quasi tutti gli esponenti dei principali partiti, vede l’opinione pubblica nutrire una forte riprovazione morale soprattutto nei confronti dei politici, più che degli imprenditori. L’alto numero di deputati inquisiti ormai delegittima il parlamento e non resta che assistere al tracollo della prima Repubblica

Era stato profetico e di monito un intervista rilasciata nel 1981 da Berlinguer su repubblica :

 

Partiti sono diventati macchine di potere”
Intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari, «La Repubblica», 28 luglio 1981
«I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer. «I partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia».

La passione è finita?

Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”.
Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
È quello che io penso.Per quale motivo?

I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c’è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.
Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
E secondo lei non corrisponde alla situazione?Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.

La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel ‘74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.
veniamo all’altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cVose stanno come lei descrive.

In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l’andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito “diverso” dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.
Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d’infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C’è da averne paura?

Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all’equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?
Veniamo alla seconda diversità.
Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.
Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.

Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant’anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.
Non voi soltanto.

È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?
Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un’offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.

Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s’intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l’occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.
Dunque, siete un partito socialista serio...
...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?

No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c’è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.
Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c’è o no?

Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c’è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e senza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.
Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?

La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono profare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.
Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d’accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l’inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell’obiettivo. È anche lei del medesimo parere?

Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L’inflazione è -se vogliamo- l’altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l’una e contro l’altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l’inflazione si debba pagare il prezzo d’una recessione massiccia e d’una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.
Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell’ “austerità”. Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...
Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all’aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all’avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la “civiltà dei consumi”, con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell’austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell’economia, ma che l’insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l’avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell’austerità e della contemporanea lotta all’inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.
E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?

Il costo del lavoro va anch’esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell’aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono,l’operazione non può riuscire.

 

Mani pulite aveva aperto una voragine,accentuata anche dalla scelta

volutamente di comodo dei partiti

Come si diceva : cambiare tutto per non cambiare niente

Sciogliere ad esempio la DC ,ma anche altri partiti minori,servì solamente a garantire una continuità con il potere locale,della maggior parte dei capi delle sue correnti

Frastagliarsi in una decina di partiti ad esempio anche se non avesse garantito alcuna possibilità di governo garantiva una presenza sulla scena della politica italiana che come si vedrà tra:sottosegretari,ministri,sindaci,assessori,presidenti di regioni o di province, lascerà inalterata l’impalcatura che aveva generato mani pulite

C’è da considerare ,come dicevano in molti ,che questa voragine sarebbe stata riempita da tutti quelli che fino a quel momento avevano e foraggiavano politici di riferimento “per entrare in parlamento non avevano più bisogno “dell’autista”

Tra questi sicuramente la criminalità organizzata

I nipoti dei vecchi”pizzinari “( che a malapena sapevano fare la loro firma) e che ormai venivano considerati,da questa nuova classe dirigente cresciuta nelle migliori università del mondo, obsoleti,un fastidioso intralcio alle loro aspirazioni.


In quello stesso anno, alle elezioni politiche del 5-6 aprile 1992, fece particolarmente scalpore il risultato ottenuto da un nuovo partito, la Lega Nord di Umberto Bossi, che conquistò 80 seggi in Parlamento (25 senatori e 55 deputati), corrispondenti a oltre tre milioni di voti, con una percentuale dell’8,7% sul territorio nazionale. Era l’approdo di un lungo percorso, cominciato già nel 1979, quando alle elezioni politiche si presentò il primo movimento leghista, La Liga veneta, (non a caso, quella consultazione elettorale si svolse appena un anno dopo il referendum contro il finanziamento pubblico ai partiti che nel 1978 – con il suo 43,8% di consensi – segnalò quanto vistosa fosse già allora la frattura nei confronti della ‘partitocrazia’). In tutti quegli anni, il movimento, che si riconobbe subito nel suo leader carismatico e fondatore Umberto Bossi, accompagnò il distacco tra la società italiana e i partiti storici, dando visibilità ai soggetti sociali che erano cresciuti nelle pieghe delle trasformazioni economiche e che nel corso degli anni ‘80 erano stati abbandonati a se stessi, privati dei riferimenti partitici indispensabili per organizzare l’azione collettiva.
La Lega si inserì in questo vuoto, con parole d’ordine improntate dapprima al federalismo, poi, via via sempre più radicali.

la difesa dell’entità regionale contro i nuovi e vecchi “ospiti”:meridionali e extracomunitari rispolverando slogan razzisti che ai più attenti ricordavano quelli del regime

il fondamento e la premessa teorica alla leggi razziali furono alcune considerazioni che miravano a stabilire l’esistenza della razza italiana e la sua appartenenza al gruppo delle così dette razze ariane. A tali considerazioni si cercò di dare un fondamento scientifico, benché quest’ultimo sia poi risultato inconsistente.
Dopo l’entrata in vigore nel 1937 del Regio Decreto Legge n. 880 – che vietava il madamismo (l’acquisto di una concubina) e il matrimonio degli italiani coi «sudditi delle colonie africane» – altre leggi di spiccata indole razzista vennero promulgate dal parlamento italiano.
Un documento fondamentale, che ebbe un ruolo non indifferente nella promulgazione delle cosiddette leggi razziali è il Manifesto della Razza o più esattamente il Manifesto degli scienziati razzisti (Manifesto della Razza), pubblicato una prima volta in forma anonima sul Giornale d’Italia il 15 luglio 1938 con il titolo Il Fascismo e i problemi della razza, e poi ripubblicato sul numero uno della rivista La difesa della razza il 5 agosto 1938.

Per la legislazione fascista era ebreo chi era nato da genitori entrambi ebrei oppure da un ebreo e da uno straniero oppure da una madre ebrea in condizioni di paternità ignota oppure chi, pur avendo un genitore ariano, professasse la religione ebraica. Sugli ebrei venne emanata una serie di leggi discriminatorie. La legislazione fascista ammise tuttavia la discussa figura dell’ebreo “arianizzato”, ovvero dell’ebreo che avesse particolari meriti: militari, civili o politici. Agli ebrei arianizzati le leggi razziali furono applicate con alcune deroghe e limitazioni
La legislazione antisemita comprendeva: il divieto di matrimonio tra italiani ed ebrei, il divieto per gli ebrei di avere alle proprie dipendenze domestici di razza ariana, il divieto per tutte le pubbliche amministrazioni e per le società private di carattere pubblicistico – come banche e assicurazioni – di avere alle proprie dipendenze ebrei, il divieto di trasferirsi in Italia ad ebrei stranieri, la revoca della cittadinanza italiana concessa a ebrei stranieri in data posteriore al 1919, il divieto di svolgere la professione di notaio e di giornalista e forti limitazioni per tutte le cosiddette professioni intellettuali, il divieto di iscrizione dei ragazzi ebrei – che non fossero convertiti al cattolicesimo e che non vivessero in zone in cui i ragazzi ebrei erano troppo pochi per istituire scuole ebraiche – nelle scuole pubbliche, il divieto per le scuole medie di assumere come libri di testo opere alla cui redazione avesse partecipato in qualche modo un ebreo. Fu inoltre disposta la creazione di scuole – a cura delle comunità ebraiche – specifiche per ragazzi ebrei. Gli insegnanti ebrei avrebbero potuto lavorare solo in quelle scuole.[2]
Infine vi furono una serie di limitazioni da cui erano esclusi i cosiddetti arianizzati: il divieto di svolgere il servizio militare, esercitare il ruolo di tutore di minori, essere titolari di aziende dichiarate di interesse per la difesa nazionale, essere proprietari di terreni o di fabbricati urbani al di sopra di un certo valore. Per tutti fu disposta l’annotazione dello stato di razza ebraica nei registri dello stato civile. « È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni i della tesi, il ministro della cultura popolare Dino Alfieri ed il segretario del PNF Achille Starace – la segreteria politica del PNF comunica il testo completo del lavoro, corredato dall’elenco dei firmatari e degli aderenti.
Tra le adesioni al manifesto spiccano quelle di personaggi illustri – o destinati a diventare tali – come, ad esempio, Giorgio Almirante, Piero Bargellini, Giorgio Bocca, Galeazzo Ciano, Amintore Fanfani, Agostino Gemelli, Giovanni Gentile, Luigi Gedda, Giovannino Guareschi, Mario Missiroli, Romolo Murri, Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Giuseppe Tucci.
Al Regio Decreto Legge del 5 settembre 1938 – che fissava «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista» – e a quello del 7 settembre – che fissava «Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri» – fa seguito (6 ottobre) una «dichiarazione sulla razza» emessa dal Gran Consiglio del Fascismo. Tale dichiarazione viene successivamente adottata dallo Stato sempre con un Regio Decreto Legge che porta la data del 17 novembre dello stesso anno.
Sono dunque molti i decreti che, tra l’estate e l’autunno del 1938, sono firmati da Benito Mussolini in qualità di capo del Governo e poi promulgati da Vittorio Emanuele III. Tutti tendenti a legittimare una visione razzista della così detta questione ebraica. L’insieme dei questi decreti e dei documenti sopra citati costituisce appunto l’intero corpus delle leggi razziali.
Alcuni degli scienziati ed intellettuali ebrei colpiti dal provvedimento del 5 settembre (riguardante in special modo il mondo della scuola e dell’insegnamento) emigrano negli Stati Uniti. Tra loro ricordiamo: Emilio Segrè, Achille Viterbi (padre di Andrea Viterbi), Enrico Fermi (che aveva sposato un’ebrea), Arnaldo Momigliano, Bruno Pontecorvo, Bruno Rossi, Ugo Lombroso.
Chi decide di rimanere in Italia è costretto ad abbandonare la cattedra. Tra questi: Tullio Ascarelli, Walter Bigiavi, Mario Camis, Federico Cammeo, Alessandro Della Seta, Donato Donati, Mario Donati, Marco Fanno, Gino Fano, Federigo Enriques, Carlo Foà, Giuseppe Levi, Benvenuto Terracini, Tullio Levi-Civita, Rodolfo Mondolfo, Adolfo Ravà, Attilio Momigliano, Gino Luzzatto, Donato Ottolenghi, Tullio Terni e Mario Fubini).
L’insegnamento nelle scuole riservate agli ebrei tuttavia non viene proibito.
Tra le dimissioni illustri da istituzioni scientifiche italiane ci sono quelle di Albert Einstein, allora membro dell’Accademia dei Lincei.
Il 5 agosto 1938 sulla rivista La difesa della razza viene pubblicato il seguente manifesto: « Il ministro segretario del partito ha ricevuto, il 26 luglio XVI, un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle università italiane, che hanno, sotto l’egida del Ministero della Cultura Popolare, redatto o aderito, alle proposizioni che fissano le basi del razzismo fascista.
La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi. Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti.
. Non bisogna soltanto ammettere che esistano i gruppi sistematici maggiori, che comunemente sono chiamati razze e che sono individualizzati solo da alcuni caratteri, ma bisogna anche ammettere che esistano gruppi sistematici minori (come per es. i nordici, i mediterranei, ecc.) individualizzati da un maggior numero di caratteri comuni. Questi gruppi costituiscono dal punto di vista biologico le vere razze, la esistenza delle quali è una verità evidente.
Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza. Se gli Italiani sono differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai Turchi, dai Greci, ecc., non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa. Sono state proporzioni diverse di razze differenti, che da tempo molto antico costituiscono i diversi popoli, sia che una razza abbia il dominio assoluto sulle altre, sia che tutte risultino fuse armonicamente, sia, infine, che persistano ancora inassimilate una alle altre le diverse razze.
Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco è rimasto della civiltà delle genti preariane. L’origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell’Europa.


Ma non fu la Lega l’unica novità politica di quella fase. A sinistra, fu significativa la sparizione pressoché totale di un grande partito con una lunghissima tradizione storica come il Psi (precipitato dal 13,6% alle elezioni del 1992 al 2,2% in quelle del 1994), che si intrecciò con la spaccatura del vecchio universo del comunismo italiano (alle elezioni del 1994, il Pds ottenne il 21,1% dei voti e il Partito della rifondazione comunista l’8,6%). Al centro, il terremoto fu ancora più clamoroso e comportò la dissoluzione del partito di governo per eccellenza, quella Dc che aveva dominato la scena politica italiana: alle politiche del 1992 il partito aveva ottenuto ancora il 29,7%; alle successive, nel 1994, non erano presenti liste democristiane! Cominciò allora la ‘libera uscita’ dell’elettorato democristiano e dei soggetti sociali che lo affollavano, un fenomeno destinato a esaurirsi – come vedremo – solo con le elezioni del 13 maggio 2001.

Con le elezioni del 13 maggio 2001 e il varo del governo di centro-destra guidato da Berlusconi e appoggiato da Bossi, la sensazione è che si sia consumato l’ultimo e definitivo passaggio della lunga transizione italiana e che la Lega abbia sciolto quello che restava l’ultimo paradosso di questa fase politica. I soggetti sociali raccoltisi in questi anni nelle file leghiste hanno finalmente raggiunto i propri omologhi assiepati nel Polo; così, direttamente nella concretezza delle condizioni materiali, sono maturate le premesse delle alleanze elettorali che hanno portato alla vittoria della destra. La libera uscita è finita. Non è più il momento di schieramenti trasversali. La destra si è messa a fare compiutamente la destra. Al marasma degli anni ‘90 è subentrato una sorta di richiamo all’ordine, in cui gli schieramenti si presentano con contorni nitidi, senza ambiguità.
Non siamo ancora in presenza di un unico contenitore politico, omogeneo e compatto; ma é ormai chiaro che tutte le pulsioni, le passioni, gli interessi che hanno agitato in modo tumultuoso l’universo sociale della Lega e del Polo hanno trovato finalmente un loro orizzonte unitario. Affioreranno ancora crepe e contrasti, la convivenza tra Alleanza nazionale, i centristi di matrice democristiana, Forza Italia e Bossi non sarà né facile, né indolore; ma si tratterà comunque sempre di contraddizioni interne a uno schieramento rinvigorito e reso nitidamente riconoscibile dalla vittoria elettorale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 15

 

23 Maggio 1992 -Giovanni Falcone, direttore della sezione Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia e tra i più autorevoli candidati alla carica di procuratore nazionale antimafia, viene ucciso insieme alla moglie e a tre agenti della scorta sull’autostrada nei pressi di Capaci, in seguito ad un esplosione di cento chili di tritolo.

19 luglio 1992 a muore Paolo Borsellino a Palermo L’esplosione, avvenuta in via Mariano d’Amelio dove viveva la madre e dalla quale il giudice quella domenica si era recato in visita, avvenne per mezzo di una Fiat 126 contenente circa 100 chilogrammi di tritolo.

Oltre a Paolo Borsellino morirono gli agenti di scorta

Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ‘68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ‘68 non è poi così difficile.
Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All’intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti - e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l’intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto.
L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l’impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo “diplomaticamente” di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.
Cos’è questo golpe? Io so

 

di Pier Paolo Pasolini

 

Il 1993 presenta, se possibile, uno scenario ancora più devastante e, questa volta, non più in Sicilia - luogo abituale delle azioni di Cosa Nostra - ma addirittura nel continente.
Alle ore 21.40 del 14 maggio, a Roma, in via Ruggero Fauro, esplodeva un’ autobomba che doveva provocare la morte del giornalista Maurizio Costanzo, rimasto fortunatamente illeso.
Alle ore 1.02 del 27 maggio,
nel centro di Firenze, esplodeva un’ altra autobomba che cagionava il crollo di un’ala della Torre dei Pulci, con la sovrastante abitazione di una famiglia, i cui quattro componenti, fra i quali due bambini, decedevano all’istante. I vicini palazzi storici venivano sventrati e nell’incendio di uno di questi moriva uno studente. Risultavano danneggiati anche la galleria degli Uffizi, palazzo Vecchio, la Chiesa dei Santi Stefano e Cecilia al Ponte Vecchio e numerose opere d’arte conservate in quegli edifici venivano distrutte o deteriorate, fra cui quelle di Giotto, Rubens, Tiziano, Sebastiano del Piombo.
Alle ore 23.14 del 27 luglio,
in via Palestro a Milano, davanti all’ingresso della Villa reale, esplodeva un’altra autobomba che uccideva cinque passanti e danneggiava gravemente vari edifici, fra i quali il Padiglione d’Arte Contemporanea con le opere in esso conservate e la Galleria d’Arte Moderna.
Alle ore 23.58 del 27 ed alle ore 00.02 del 28 luglio, a Roma, venivano fatte esplodere altre due autobombe: una
in piazza S. Giovanni in Laterano e l’altra presso la Chiesa di San Giorgio al Velabro. Anche in questi casi ingenti furono i danni al patrimonio artistico e non solo a questo perché le esplosioni provocarono anche il ferimento di numerose persone.
Nelle stragi del 1993 - che dovevano proseguire con l’esplosione di un’autobomba allo Stadio Olimpico, in occasione di una partita di calcio, in danno di automezzi che trasportavano i Carabinieri che avevano svolto servizio di ordine pubblico ed a parte quella di via Fauro che doveva colpire un giornalista che aveva preso pubblica posizione contro la mafia - gli obiettivi furono ben diversi da quelli presi di mira nel 1992. Non più singole e ben individuate persone, ma direttamente lo Stato, colpito in alcune delle sue più rilevanti espressioni artistiche, culturali e religiose. In tal modo l’azione di Cosa Nostra assume valenze e significati sicuramente terroristico-eversivi.
Attraverso il programma di stragi realizzato in quell’anno l’associazione mafiosa voleva perseguire finalità politiche sostituendo al metodo democratico, quello fondato sull’intimidazione.
Dunque: non più regime speciale per i detenuti mafiosi, non più protezione dei collaboratori di giustizia ed utilizzazione delle loro dichiarazioni.

L’indagine svolta sulle stragi del 1993 ha consentito di individuare coloro che materialmente ebbero a compierle e coloro che, dall’interno di Cosa Nostra, le progettarono.
Lo stesso è avvenuto per la strage di Capaci e per quella di via D’Amelio.
Tuttavia le procure della Repubblica che hanno indagato sull’una e sull’altra “serie stragista” non hanno ritenuto chiuse le loro investigazioni: una pluralità di sintomi induce infatti a prospettare un ulteriore percorso di indagine volto a verificare la concretezza dell’ipotesi investigativa, suggerita appunto da quei sintomi, secondo cui di tali fatti possano esser stati ispiratori “mandanti dal volto coperto” estranei, cioè, all’organizzazione mafiosa Cosa Nostra, ma mossi da interessi con essa convergenti ed anch’essi appagabili con la strategia attuata da tale associazione.
Si tratterà di stabilire, al termine del cammino investigativo già iniziato, ma seminato di difficoltà di vario tipo e spessore, se le tracce si saranno trasformate in orme o, meglio ancora, in impronte digitali. 
In tale prospettiva va rilevato che Cosa Nostra, cui sempre più sono collegate ‘Ndrangheta e Camorra, le altre storiche associazioni mafiose, è divenuta compartecipe di un progetto disegnato e gestito insieme ad un potere criminale diverso e più articolato, dando vita a quello che ben può definirsi “potere criminale integrato”.
Lo scenario criminale delineato sullo sfondo degli ultimi attentati ha infatti posto in evidenza da un lato - come si è già avuto modo di rilevare - l’interesse alla loro esecuzione da parte della mafia e dall’altro la certezza di una presenza operativa di Cosa Nostra: ma è la sapienza della regia delle stragi a segnalare la novità.

Gli investigatori hanno notato che le sottili valutazioni sugli effetti di una campagna terroristica e lo sfruttamento del conseguente condizionamento psicologico non sembrano il semplice frutto della mente di un criminale comune, sia pure mafioso: si riconosce in queste operazioni di analisi e di valutazione una dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi delle comunicazioni di massa ed anche una capacità di sondare gli ambienti politici e di interpretarne i segnali. Si potrebbe pensare ad una aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso nel quale convergano finalità diverse.
La stessa svolta della risposta giudiziaria, sia sul versante della repressione delle associazioni di tipo mafioso che su quello della corruzione, con i ben noti effetti dirompenti sull’apparato dei partiti, può aver determinato una coincidenza degli interessi di Cosa Nostra con quelli di altri settori investiti dalle indagini: settori della politica corrotta e dell’eversione di destra; logge massoniche coperte; imprenditori e finanzieri d’avventura collusi; pezzi o reticoli di funzionari dello Stato infedeli.
Se questi nodi saranno sciolti, il nostro Paese avrà compiuti passi di decisiva importanza per una sempre più radicata affermazione della democrazia.

 

Dalla rete

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo 16

Per l’ennesima volta mi avevano licenziato,o meglio ero stato messo in mobilità e avendo superato i 58 anni ne avevo per tre anni

L’azienda in cui lavoravo era in crisi

Crisi dovuta al mercato globale,alla concorrenza dei paesi dell’est anche se ,facendo il meccanico di macchine automatiche mi avevano detto,dei meccanici esterni ,che avevano montato alcune linee di lavorazione proprio in quei paesi di una multinazionale italiana nel cui consiglio di amministrazione c’erano i miei”padroni”

Quando mi chiamò la direzione dell’azienda di servizi in cui lavoravo per offrirmi un contratto a tempo indeterminato non volevo crederci;61 anni ,dopo tre anni vissuti tra sussidio di disoccupazione e una infinità di contratti a tempo determinato

Certo gli stipendi che percepivo fino al 2004 me li sarei sognati

Ma come dicevo a mia moglie :in altri tempi alla mia età sarei andato in pensione,facciamo conto che ci sia andato e diamo un taglio alle spese

In fondo ero stato fortunato se pensavo alle migliaia di ragazzi che girano per le agenzie interinali alla ricerca di un contratto di lavoro; indipendentemente dalla durata del contratto :.un mese,sei mesi,un anno

Negli ultimi anni per effetto,ma non per colpa della globalizzazione si andava delineando sempre più nettamente un irreversibile stratificazione sociale

Le varie disuguaglianze tra gli uomini si andavano cristallizzando nella società Assume quindi rilievo il ruolo che le disuguaglianze di genere, età, origine etnica hanno coperto nelle relazioni di dominio e subordinazione nell’era “Berlusconiana”

L’era berlusconiana non è solo la politica di Berlusconi ma è determinata soprattutto da come tutto il mondo politico italiano,in particolare la sinistra, ha risposto e non risposto al modo “padrone”di intendere il potere

Questo comportamento avulso,e spesso tendente a imitarne le scorciatoie costituzionali ha determinato il modo in cui si sono costituirsi gruppi sociali caratterizzati sia da diverse possibilità di vita e di accesso alle risorse sociali, sia da specifiche visioni del mondo

In questi anni in Italia come in altri paesi avanzati la crescita economica ha prevalentemente favorito chi era già ricco, e in questo modo si è ulteriormente aggravato il divario a discapito dei poveri.

A lanciare l’allarme è l’Ocse - Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico - con un rapporto pubblicato su redditi, disuguaglianza e povertà.

Il peggioramento dei divari tra ricchi e poveri è un fenomeno molto esteso, colpisce i tre quarti dei 30 paesi che fanno parte dell’organizzazione parigina, ma la penisola finisce nella non lodevole lista degli stati in cui, in più, si assiste anche ad un aggravamento del divario tra i più abbienti e la classe media.
Si conquista un poco invidiabile primato negativo, l’Italia, in questo rapporto dell’Ocse: dalla metà degli anni ’80 ad oggi ha visto la disuguaglianza su redditi da lavoro, risparmi e capitale aggravarsi del 33 per cento, rileva il rapporto nella scheda dedicata al bel paese. «Si tratta del più elevato aumento nei paesi Ocse, dove l‘aumento medio é stato del 12 per cento», avverte l’organizzazione parigina, e questa tendenza è proseguita durante i primi anni novanta. In questo modo, da livelli di disuguaglianza in linea con la media, ora l’Italia si ritrova a valori che invece sono più da «Europa del Sud»,

«La disuguaglianza é rimasta ad un livello comparativamente elevato. Tra i 30 paesi Ocse oggi l‘Italia ha il sesto più grande gap tra ricchi e poveri

Sorprendentemente, l‘Italia é il paese i cui dati nudi e crudi restano allarmanti: il reddito medio del 10 per cento degli Italiani più poveri è circa 5000 dollari, tenuto conto della parità del potere di acquisto, quindi sotto la media Ocse di 7000 dollari. Il reddito medio del 10 per cento più ricco è circa 55000 dollari, sopra la media Ocse. «I ricchi hanno beneficiato di più della crescita economica rispetto ai poveri ed alla classe media».
La ricchezza è distribuita in modo più diseguale rispetto al reddito: il 10 per cento più ricco detiene circa il 42 per cento del valore netto totale. In confronto, il 10 per cento più ricco possiede circa il 28 per cento del totale del reddito disponibile».

«La crescente disuguaglianza tende a dividere. Polarizza le società, crea divisioni regionali tra paesi e allarga la voragine tra ricchi e poveri -

I nuovi poveri sono soprattutto gli anziani che vivono della sola pensione. Secondo una ricerca ci sono dieci milioni persone della terza età che hanno a malapena i soldi per mangiare, pagarsi l’affitto e non sempre riescono a curarsi.

Ma anche le famiglie con più figli hanno sempre più difficoltà.

Ci sono anche molte persone a rischio di povertà perché i consumi non oltrepassano i 1000 euro al mese.

.

La classe politica tenta di ignorare questa ricerca e il fenomeno in generale

L’altra Italia è di quelli che: chiamano ‘High net worth individual’, soggetti con alti patrimoni finanziari. Le banche e le aziende del lusso li studiano in tutto il mondo. Sono clienti perfetti, con disponibilità di acquisto quasi illimitata.

La stima del mercato italiano, effettuata dall’Associazione italiana private banking, non lascia dubbi: nel nostro Paese i conti correnti da favola superiori ai 500 mila euro sarebbero in tutto 728 mila, per una fetta di ricchezza che arriva, in totale, a 870 miliardi di euro. La metà, circa, del prodotto interno lordo.
Dato in aumento rispetto agli 820 miliardi censiti nel 2006. Nonostante i venti di recessione, il numero dei ricchi la ricerca non comprende le proprietà immobiliari - è aumentato in 12 mesi del 2,5 per cento. Quasi la totalità (il 97 per cento) ha una liquidità, tra contanti, fondi e azioni, compresa tra i 500 mila e i 5 milioni di euro, mentre un gruppetto di fortunati sfonda il tetto dei 6 milioni.

 

Mentre facevo queste riflessioni e cercavo di documentarmi per renderle più esplicative guardai fuori la portineria in cui lavoravo,e lavoro tutt’ora

C’è un posacenere,quelli che mettono fuori ai centri commerciali

Un signore anziano vestito dignitosamente si avvicinò al posacenere,scelse con cura le cicche con più sigaretta rimasta e li ripose con cura in quello che una volta doveva essere un portasigarette di argento

Mi guardò e con le mani mi fece un gesto come per dire “pazienza…..”

Mi è venne in mente il racconto di Nino e la sua prima sigaretta o quando mio padre mi portava con lui a fare la spesa la domenica mattina

A Napoli i negozi del centro storico restavano aperti ;i commercianti sapevano che quasi tutti i lavoratori della zona venivano pagati il sabato a tarda ora,

Si fermava davanti una bancarella e comprava per me uno spicchio di caramella di zucchero,quelle che si facevano una volta in casa, e per lui un pacchetto di tabacco e un pacco di cartine

Capitava,a volte che arrivavano dei ragazzini e scaricavano sul banchetto piccole montagne di cicche

Prendevano quello che la donna li dava,caramelle o monetine e correvano via

La donna cominciava da subito a sventrare quelle cicche accumulando il tabacco e facendone piccoli pacchetti come quello che aveva venduto a mio padre

Nino e il suo racconto !!

Di volta in volta arricchito,con verità nascoste per paura della reazione dei monaci ,o inventati ? (non l’ho mai saputo)

La sua partecipazione alle 4 giornate e lo scontro con i tedeschi allo stadio Collana?

Quel posacenere,quell’anziano signore che si allontanava,le cicche mezze fumate da quelli che entravano al supermercato,il mio pacchetto di tabacco ,le vetrate di cristallo del grattacielo di fronte, emblema di quella “democrazia”che con guerre “di pace” esportavamo in tutto il mondo,

Mi venne in mente : Il ritratto di Dorian Gray.e lo immaginavo implodere del male che lo aveva reso agli occhi di chi non vuol vedere cosi accattivante.

Dovevo….continuare il mio cammino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La vostra opinione conta!

Qui pubblicherò i sondaggi per tastare il polso a voi lettori sui grandi misteri del nostro tempo.

  • Foto in esclusiva
  • Filmati ultime news
  • In nostro podcast
  • l'opinione del direttore
  • L'uomo di strada dice...